di Maurizio Maggioni e Noemi Roncuzzi – 18 giugno 2024

Le case della comunità spiegate "dall'interno"

 Una intervista impossibile per illustrare la novità varata dalla Regione Emilia Romagna

Aperte 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, entro il 2026, saranno il luogo di riferimento per l’assistenza sanitaria integrata a quella sociale. Sono le Case della comunità, pensate una per ogni 40-50mila abitanti, abbinate ad altre strutture satellite, istituite in base al fabbisogno dei territori.

L’organizzazione sarà simile a quella di un ospedale, garantendo un accesso costante e continuo, la presa in carico del paziente, però, terrà conto non solo dei bisogni clinici ma anche di quelli sociali ed economici. Il tutto rientra nella Missione 6 del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), dedicata alla salute, che prevede la destinazione di oltre 15 miliardi di euro, di cui tre miliardi per la costruzione di poco più di 1.350 Case di comunità. Ad oggi ne restano 367 ancora da edificare, mentre sono 1.052 quelle da ristrutturare (dati Openpolis). La regione che ne avrà di più sarà la Lombardia (216), mentre in Val d’Aosta ne sono previste 3.

Ma cosa sono esattamente le Case della comunità? Qual è l’obiettivo di fondo? Alla base c’è la volontà di creare uno spazio vivo di prossimità, dove incontrarsi, creare relazioni di vicinanza, pensare alla salute a 360 gradi, in tutte le sfumature.

Da qui l’idea di un’intervista impossibile, in cui una ipotetica Casa delle comunità risponde direttamente alle domande del proprio datore di lavoro: il Servizio sanitario nazionale. Un gioco stilistico per restituire proprio questa dimensione umanizzante quale sfida e obiettivo del progetto.

Perché ritiene di essere idonea a ricoprire questo ruolo? “In passato ho ricoperto il ruolo di Casa della salute e vado fiera dei risultati ottenuti, ma sento che è giunto il momento di cambiare, di dare una svolta al mio percorso”.

Perché questo cambiamento? “Sono pronta a dimostrare di poter essere casa, un luogo in cui aver cura delle dimensioni relazionali e affettive dei cittadini, dove farli sentire accolti e facenti parte di una comunità, appunto, che li (ri)conosca intercettando i loro bisogni e raggiungendo gli invisibili. Un ambizioso progetto ma mi sento pronta a ricoprire questo ruolo”.

Il Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) intende implementare servizi di cura e assistenza sociosanitaria che offrano salute ma anche benessere. Se la sente di accettare questo ambizioso incarico? “Assolutamente sì. In una realtà che cambia alla velocità di un click, dove la socializzazione sembra essere uno sforzo e le relazioni sempre più ridotte, la mia missione è invertire la prospettiva. Nel farlo, intendo accogliere, ascoltare e promuovere la salute a 360 gradi. Il mio segreto? Un effettivo team-work tra le équipe multidisciplinari che collaboreranno con (e per) me, una grande capacità di adattamento e l’inclinazione alla proattività nell’intercettare i bisogni della cittadinanza. Ho messo in moto un sistema che coinvolge direttori di distretto Ausl, assistenti sociali, operatori sanitari, enti del Terzo settore e Centri di servizio per il volontariato. Ho pensato anche a momenti formativi in questo percorso di integrazione multiprofessionale, come i Casa community lab in Emilia-Romagna, laboratori di formazione-intervento con orientamento teorico e metodologico, iniziati il 15 novembre 2023. Credo che, per contrastare le fragilità e alleggerire il peso che grava sulle spalle della sanità pubblica, serva stimolare la sanità di iniziativa. Non ci possiamo più permettere di agire nell’emergenza. Propongo di non attendere che i malati vadano nelle strutture per analizzare le proprie patologie, ma di offrire prevenzione e informazione che li anticipi sui tempi. Una lezione che ho imparato già ai tempi della pandemia Covid-19: i servizi di assistenza socio-sanitaria hanno in comune la necessità di intercettare le fragilità e le solitudini, anche a titolo di monitoraggio. Adottando questo modus operandi, si saprà come fare e cosa fare anche in caso di emergenza. È la filosofia della formica: programmare il futuro della sanità con atteggiamento positivo e senza perdersi d’animo, ottimizzando le risorse e facendo più del necessario nei periodi prosperi, per scongiurare le difficoltà dell’inverno già dall’estate”.

Perché dovremmo scegliere proprio lei? “Il mio è un progetto resiliente, inclusivo e partecipativo: è importante che i modelli di assistenza siano vicini alle persone. Il passaggio da Case della salute (Cds) in Case di comunità (Cdc) rappresenta un effettivo dispositivo di rinnovamento del sistema di cure primarie territoriali e anche della medicina di famiglia. La differenza strutturale rispetto all’antecedente modello sta nell’approccio (integrato, proattivo e di prossimità). Inoltre, la mia struttura di Cdc è facilmente riconoscibile e raggiungibile dalla popolazione per l’accesso, l’accoglienza, l’orientamento, la progettazione e l’erogazione degli interventi sanitari e sociali”.

Non mi è ancora chiaro cosa la distingua dalla Casa della Salute. “Ne sono l’evoluzione: assorbirò il modello e la rete, ma riprogrammando e riorganizzando le strutture pre-esistenti in un nuovo assetto maggiormente dinamico. Anche il decreto del ministero Salute sugli standard territoriali (77/2022) recita: Tutte le strutture fisiche territoriali già esistenti devono utilmente rientrare nella progettazione della nuova geografia dei servizi e strutture territoriali (…). Il piano di sviluppo dei servizi territoriali di ogni singolo contesto regionale deve quindi tendere ad una progettazione dei servizi in rete, con una precisa selezione delle infrastrutture fisiche esistenti da valorizzare, riorientare con altre vocazioni e servizi o dismettere. Il fulcro sta nella pratica partecipativa. La speranza è che il signor Mario Rossi che abita in una comunità di poco più di quattromila abitanti, creda talmente tanto in questo progetto di sanità e salute, che sia desideroso persino di posare la prima pietra della sua Cdc. Co-costruire (il senso e il significato di questo modello), è la parola chiave: sarà la signora Luisa Bianchi a rilevare che al civico 5 di via dei Monti, esiste un anziano che ha bisogno di socializzazione, sarà lei che gli parlerà dei servizi, rendendosi attrice del cambiamento. L’interazione tra la comunità e l’autonomia partecipativa possono migliorare l’efficacia e l’accessibilità del percorso-salute. In Emilia-Romagna ho individuato già alcune realtà-pilota replicabili. Il processo di selezione è stato inclusivo e trasparente. Per far sì che tutte le voci fossero ascoltate e valorizzate, ho messo come priorità il dialogo aperto e costruttivo tra i miei collaboratori”.

Come pensa di creare partecipazione? “Attraverso l’altruismo civico, coinvolgendo l’associazionismo e il volontariato, perché possano portare servizi complementari: supporto psicologico, momenti di lettura e di svago, camminate, corsi di formazione. Tutte iniziative che aiutino le persone a mantenere un buono stato di salute. Il Terzo settore sarà senza dubbio un grande alleato. Ho pensato a lui per costruire prossimità e presidiare i territori, anche quelli più remoti, per garantire che i servizi sanitari siano responsivi”.

Ha anche una lettera di referenze da presentare? “Sì, è stata redatta da Monica Raciti, responsabile dell’area infanzia e adolescenza, pari opportunità e Terzo settore della Regione Emilia-Romagna, che mi descrive così: La Casa della comunità, ponendo al centro la comunità nelle sue varie forme (pazienti, caregiver, associazioni di pazienti e cittadini/e), può divenire un effettivo contesto di trasformazione della visione di cura. Di conseguenza, può diventare nodo centrale di una più ampia rete di offerta dei servizi sanitari, sociosanitari e socioassistenziali e parte integrante dei luoghi di vita della comunità locale. La partecipazione della comunità è cruciale al fine di ripopolare gli spazi pubblici di prossimità: luoghi dove le persone possono prendere parola, discutere, decidere, elaborare e mettere in opera soluzioni adatte ai contesti nei quali emergono. Concepita in questi termini la Casa della comunità rappresenta quindi un esempio dei legami esistenti tra processi partecipativi, contrasto alle diseguaglianze e promozione dell’equità”.

In quest’ottica, pensa di potersi insediare in modo capillare? “Posso adattarmi sia alla grande metropoli che al paesino sperduto sugli Appennini. Il mio mantra è: democraticità dell’accesso ai servizi, ottimizzazione delle risorse e uno sguardo innovativo verso il futuro. Una missione cruciale per un Paese in cui il tasso di over 65 è altissimo e in incremento costante, in cui tutelare il diritto alla salute, dall’accesso alle cure alla gestione delle cronicità”.

Non dimentichi il ruolo delle Regioni. Come intende collaborare con loro? “Torno all’esempio dell’Emilia-Romagna dove è stato avviato nel 2023 il percorso Casa community lab che durerà fino al 2025, all’interno del più articolato processo di adeguamento del Sistema sanitario regionale, previsto dal decreto 77/22 e dagli obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza, così come indicato nella dgr 2021/2022 (primo provvedimento di programmazione dell’assistenza territoriale dell’Emilia-Romagna). Quest’ultima pone come orientamento il lavoro di rete, l’interprofessionalità, la multidisciplinarietà, la prossimità e la partecipazione della comunità nella definizione del progetto di salute, valorizzando le azioni dei distretti. Il Servizio sanitario emiliano romagnolo già da tempo si caratterizza per una ricca dotazione strutturale (per esempio, Case della salute, poliambulatori, ospedali di comunità, hospice).

In regione, le Case della salute attive nel 2021 erano 129 e si prevede che entro il 2026, si aggiungano ulteriori 89 Case della comunità hub. Inoltre, il territorio si contraddistingue per lo sviluppo di servizi di prossimità, i quali oggi mostrano un’ulteriore esigenza di rafforzare interventi inclusivi di promozione della salute, guidati da un principio di equità e contrasto delle disuguaglianze e fondati su una maggiore collaborazione e sinergia tra i servizi, e tra questi, il Terzo settore.

Più precisamente, Casa community lab armonizza due metodi di lavoro: Casa lab e Community lab. La prima è stata un percorso formativo finalizzato allo sviluppo dell’integrazione multiprofessionale e volto ad accompagnare l’implementazione della delibera regionale sulle Case della salute. La prima edizione dei laboratori Casa lab si è svolta nel biennio 2018-2019 e si è articolata in tre percorsi (ciascuno dedicato a un’area vasta specifica); la seconda edizione, Casa lab Romagna, ha avuto inizio a novembre 2019, con l’avvio del percorso formativo per quattro Case della salute.

Il Community lab, invece, è una metodologia utilizzata dal 2022 in diversi ambiti (ad esempio la programmazione locale partecipata, il processo unionale dei Comuni, la presa in carico delle nuove forme di conflittualità familiari), con l’obiettivo di conoscere più da vicino le comunità, comprenderne bisogni, interessi e dinamiche e, a partire da qui, sviluppare quali possano essere le evoluzioni e le innovazioni in materia di welfare locale”.

Quali sfide e opportunità si presentano a livello regionale nell’implementazione di questo nuovo modello? “Si tratta di trasformare la visione di cura, che deve essere intesa come presa in carico integrale della persona e sviluppo del benessere di un territorio, con particolare attenzione alle condizioni di maggiore fragilità. Al centro c’è la comunità, nelle sue varie forme (pazienti, caregiver, associazioni e cittadini). La partecipazione sta nella capacità di ripopolare quelli che vengono definiti spazi pubblici di prossimità, intesi come luoghi dove le persone possono prendere parola, discutere, decidere, elaborare e mettere in opera soluzioni adatte ai contesti nei quali emergono. Concepita in questi termini, io, Casa della comunità, rappresento quindi un esempio dei legami esistenti tra processi partecipativi, contrasto alle diseguaglianze e promozione dell’equità”.

Rispetto ai Centri di Servizio per il volontariato, che ruolo hanno? “Secondo le parole di Monica Raciti (responsabile area infanzia e adolescenza, pari opportunità e Terzo settore della Regione Emilia Romagna) i Csv sono un interlocutore privilegiato attraverso cui accedere alla comunità, mapparla e quindi comprenderla, con lo scopo di valorizzare e potenziare la sinergia tra aziende sanitarie, enti locali e soggetti del Terzo settore. Così facendo, si può contribuire a riformulare le politiche di salute, arricchendo la lettura dei bisogni, cogliendone anche quelle aree grigie non sempre inquadrabili nelle categorie in cui sono organizzati i servizi, per identificare, generare e innovare le possibili risposte. Si tratta di una rivoluzione culturale che, in quanto tale, implica il superamento di resistenze e routine consolidate. È imprescindibile condividere linguaggi e visioni, mettere il centro il senso di appartenenza. Per questo, nel percorso Casa community lab, per ogni territorio, i destinatari sono stati individuati di concerto tra Azienda sanitaria, enti locali e Centro servizi volontariato, in modo da garantire un’adesione al percorso di operatori sanitari, sociosanitari, sociali, rappresentanti del Terzo settore e cittadini. Tra i principali obiettivi del percorso, vi è quello di lavorare su governance integrate tra sanitario, sociale, terzo settore e cittadini, ad esempio costruendo un board della Case della comunità integrato tra Ausl, enti locali e Csv. Già questo costituirebbe una buona premessa per dar vita a un luogo che possa essere un presidio sanitario abitato dalla Comunità, in tutte le sue forme, e finalizzato alla promozione e allo sviluppo del benessere di un territorio: da luogo di cura alla cura dei luoghi”.

Come il coinvolgimento della comunità può influenzare il processo di transizione da Casa della Salute a Casa della Comunità? “Il coinvolgimento della comunità può contribuire a riformulare le politiche di salute, arricchendo la lettura dei bisogni, cogliendone anche quelle aree grigie non sempre inquadrabili nelle categorie in cui sono organizzati i servizi, e permettendo in questo modo di identificare, generare e innovare le possibili risposte. Con le parole dell’etnopsichiatra brasiliano Adalberto Barreto: Le comunità hanno in sé i propri problemi ma anche le proprie soluzioni”.

Quali sono i principali ostacoli in questa transizione? “Innovare i modelli organizzativi e le pratiche professionali richiede un grande investimento di tempo e di impegno per l’analisi congiunta tra i diversi attori; si tratta anche di una rivoluzione culturale che, in quanto tale, richiede di superare resistenze e routine consolidate, condividere linguaggi e visioni, mettere al centro il senso di appartenenza alla comunità rispetto alle specifiche appartenenze (organizzative/professionali/culturali). Questi saranno senz’altro importanti elementi di analisi nella fase di osservazione e valutazione del processo”.

In conclusione, come emerso da questa fittizia intervista alla Casa della comunità, il Servizio sanitario nazionale si trova davanti a una sfida ambiziosa ma non impossibile: far sì che ci sia dialogo e integrazione trasversale su più settori al fine di migliorare e potenziare l’accesso alle cure, migliorando la promozione della salute e del benessere sociale. Grazie alla rete tra professionisti e comunità, alimentata in primis dal Terzo settore, si farà sì che a casa ci si sentano proprio tutti e tutte, e che nessuno venga lasciato indietro.

L'esterno di una "casa di comunità" in Emilia-Romagna

TI POTREBBERO INTERESSARE