di Stefano Gheno – 12 ottobre 2021

Il lavoro del volontario

 L’ossimoro compreso tra stanchezza e desiderio

“Lavorare stanca”, Cesare Pavese titolava così la sua raccolta di poesie, contenente – tra le altre – una descrizione mirabile della fatica insopprimibile del lavorare. “Del resto bisogna pur mangiare”, si dice ben più prosaicamente. Stanchezza e bisogno sono dunque, spesso, le caratterizzazioni del lavoro umano. Caratterizzazioni che richiedono una compensazione, un compenso. Questa è la regola pressoché universale del lavoro dell’uomo, con due grandi eccezioni.
La prima è la schiavitù: oggi sono in assoluto pochi i luoghi e i contesti in cui è ancora possibile utilizzare la manodopera di schiavi, cioè persone che non hanno la libertà di non lavorare, ma che sono obbligati a prestare la loro opera in virtù di una ridotta o assente libertà personale.
La seconda eccezione alla regola dell’essere pagati per lavorare è il volontariato. Per certi versi l’esatto opposto della schiavitù. Mentre in quest’ultima condizione il lavoro è conseguenza dell’essere proprietà di un altro uomo, nel volontariato il lavoro è una “prestazione volontaria e gratuita della propria opera a favore di categorie di persone che hanno gravi necessità e assoluto e urgente bisogno di aiuto e di assistenza, esplicata per far fronte a emergenze occasionali oppure come servizio continuo” ed è garantita come diritto della persona e come elemento di sviluppo sociale, ci dice la Treccani.
Stranamente il volontariato è un fenomeno diffuso: sono molte le persone che decidono liberamente di prestare gratuitamente la propria opera. Nel nostro Paese i volontari sono diversi milioni di donne e uomini che decidono di offrire un determinato tempo di lavoro, senza ricevere in cambio una retribuzione. Perché lo fanno? I motivi possono essere molteplici – la motivazione del resto è sempre personale., ma si può individuare una motivazione “ampia”, trasversale, per certi versi definibile come un universale, dato che si può rintracciare ad ogni latitudine e in ogni periodo della storia umana: portare il proprio contributo al bene comune.
Per molti secoli questo è stato il principio generale del lavoro umano. Non di rado viziato da sfruttamento indebito e opportunismo, tuttavia mai messo in discussione fino all’epoca moderna. Per usare i versi di un altro poeta, Charles Peguy, “un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore… La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta…”.
A mio parere, da psicologo, quello di contribuire al bene comune, gratuitamente, più che a un bisogno, risponde a un desiderio. Desiderare è un verbo bellissimo. La sua etimologia lo mette in relazione con le stelle (“siderare”, cioè guardare i corpi celesti) per cercare qualcosa che ci manca (il “de” è usato in senso privativo) e a cui tendiamo. E in effetti, sempre l’uomo ha guardato le stelle, per trarvi auspici e ispirazioni oppure semplicemente perché è bello, è da innamorati.

Stefano Gheno è psicologo del lavoro e di comunità. Insegna in Università Cattolica di Milano ed è da sempre attivo nel volontariato. Svolge da oltre trent’anni attività di consulenza e formazioni per Enti del Terzo Settore in Italia e all’estero. Attualmente è presidente di Cdo Opere Sociali.

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