Dedicato alle vittime del Covid l’ultima pubblicazione del Gruppo Solidarietà, morte in solitudine lontane dai loro affetti. Alle persone strappate al capezzale dei propri cari. A chi «non si è sottratto al proprio dovere».
L’ultimo libro curato dall’organizzazione di volontariato Gruppo Solidarietà si intitola “Non come prima. L’impatto della pandemia nelle Marche”, nono quaderno di una collana dedicata ai temi sociali e sanitari del proprio territorio e che, come si legge nei titoli, mette al centro “I deboli”, “I dimenticati”, “Quelli che non contano”. «Il Covid è stato un detonatore che ha fatto esplodere una serie di disfunzionalità cresciute negli ultimi anni. Carenza di personale, depauperamento delle strutture territoriali a favore dei grandi distretti: tutto questo ha aggravato l’impatto del contagio. Dopo quanto accaduto l’augurio è di non tornare sugli stessi errori di prima», spiega Fabio Ragaini, presidente di questa associazione che dal territorio della Vallesina, provincia di Ancona, fa sentire la propria voce in tutte le Marche.
Nato nel 1979 grazie a un campo estivo per disabili organizzato da Carlo Urbani, il medico deceduto nel 2003 dopo aver identificato il primo focolaio della Sars, il Gruppo Solidarietà è oggi un punto di riferimento di primo piano nel complesso mondo della fragilità. «Siamo volontari, negli anni abbiamo costruito un fitto dialogo con le famiglie dei disabili e con le comunità. È dall’ascolto che prendono vita le proposte che facciamo al mondo della politica». Il Gruppo Solidarietà, infatti, si è fatto negli anni promotore di appelli e tavoli di confronto, ha elaborato documenti che hanno portato alla luce temi spesso invisibili agli occhi dell’opinione, anche se cruciali: «Richiamiamo le istituzioni alle proprie responsabilità. Con la politica abbiamo un rapporto di giusta conflittualità, in un confronto che ha dato i suoi frutti grazie a quegli amministratori che hanno capito quanto i diritti della persona siano il cuore del nostro operare», continua Ragaini.
Nella sede dell’associazione, uno spazio nella Biblioteca di Moie di Maiolati Spontini, ex fornace di mattoni recuperata, l’associazione ha dato vita anche a un Centro documentazione sulle politiche sociali. Qui si fa cultura grazie alla biblioteca da 15mila volumi e 400 titoli tra riviste, articoli e ricerche raccolti in 25 anni di lavoro sulla disabilità. Attraverso il Centro, i volontari studiano atti della Regione, documenti dell’Asur, leggi locali e nazionali in materia di emarginazione, disagio, solidarietà, politiche sociali. Allo studio a tavolino si aggiunge il lavoro di relazioni: «Siamo in contatto con le forze sindacali, con i responsabili dei servizi pubblici, con le cooperative di servizi. Abbiamo rapporti di collaborazione con tante associazioni che si occupano di disabilità, con Fish, Ledha, Fondazione Zancan e altri – aggiunge Ragaini – Ci scambiamo informazioni, visioni. Si è dato vita anche a un tavolo regionale con altre 14 associazioni, così da incidere con maggiore efficacia».
Attivismo, passione e competenza che hanno portato frutti importanti . Nella Vallesina l’associazione ha contribuito allo sviluppo dei servizi territoriali, in particolare di sostegno alla domiciliarità per persone con disabilità, alla crescita di modelli abitativi di tipo comunitario all’interno dei normali contesti di vita.
Proprio il tema della convivenza è al centro di una delle battaglie più recenti: l’appello, condiviso con altre associazioni, contro la realizzazione di un nuovo complesso sanitario nel Comune di Rapagnano (Fermo), con 175 posti, residenziali e semiresidenziali, destinati af anziani non autosufficienti e con demenza, disabili, persone con disturbi mentali. «Si tratta di un assembramento che ripropone il modello del grande istituto dove la qualità della vita passa in secondo piano. I servizi, invece, devono essere personalizzati e disseminati nel territorio. Il Covid oltretutto ha dimostrato quando siano pericolosi gli spazi dove convive un grande numero di persone. – conclude Ragaini – Occorre impegnarsi affinché non si torni al modello delle “cittadelle” spersonalizzanti».