Le legislazioni internazionali e nazionali spiegano chiaramente come accogliere i migranti con disabilità e danno indicazioni, procedure e strumenti per farlo nel migliore dei modi. Poche volte tuttavia viene suggerito all’operatore del sistema di accoglienza di chiedere come primo aspetto al migrante con disabilità “Che cosa vuoi per la tua vita adesso che sei in Italia?”. Una domanda semplice che implica un cambio di prospettiva nell’accoglienza anche perché non è detto che il servizio offerto e il progetto personale pensato dagli esperti siano in linea con le aspettative del migrante.
Questo deve farci riflettere sul perché accogliamo e sulle modalità con cui lo facciamo.
Importante punto di partenza in questo tipo di processo è il coinvolgimento in modo significativo delle persone con disabilità che vivono in Italia e/o che sono già arrivate attraverso i fenomeni migratori e delle loro organizzazioni, sia attraverso una partecipazione alla progettazione sia attraverso una partecipazione all’attuazione e valutazione di ogni iniziativa connessa all’accoglienza. Solo chi ha già vissuto simili percorsi e porta sulle spalle un bagaglio così carico di sofferenza e difficoltà può capire ed aiutare chi è appena arrivato in Italia.
La Dichiarazione di Cartagena sui rifugiati del 1984 ci indica come via maestra per l’accoglienza una “protezione offerta ai rifugiati, la salvaguardia dei loro diritti umani e l’attuazione di progetti volti alla loro autosufficienza e integrazione nella società ospitante”. La vera protezione può avvenire solamente nel pieno rispetto dei diritti umani, e il chiedere al migrante quali siano le proprie aspettative è sicuramente il modo migliore per fare in modo che avvenga il pieno ed effettivo godimento dei propri diritti, e nella completa inclusione nella società, in modo da non subire discriminazioni e avere pari accesso ai servizi fondamentali. Questo ci porta indubbiamente a riconoscere il fatto ultimo che i migranti e i migranti con disabilità debbano essere riconosciuti come membri a pieno titolo delle nostre società. Solo così avremo veramente una cultura viva, effettiva e piena dei diritti umani.
Ma proprio a causa dell’incapacità sistemica di proteggere i loro diritti, spesso i migranti con disabilità si trovano in situazioni difficili anche una volta entrati nel sistema di accoglienza: maggiore è il rischio di subire violenze, anche sessuali e abusi domestici, maggiore è la discriminazione, le barriere linguistiche e comunicative che impediscono loro una piena partecipazione alla società. Spesso le strutture non sono accessibili sia per quanto riguarda le residenze sia per i servizi di supporto soprattutto nei casi di malattie che necessitano cure e degenza.
Che cosa fare allora perché il migrante con disabilità possa davvero ricostruirsi una vita, ma una vita che gli dia la speranza di volerla e poterla vivere pienamente?
Pochi e semplici passi: Identificare e riconoscere lo stato di disabilità tenendo conto dell’invisibilità di molti tipi di disabilità, solo così potremo capire la persona che abbiamo difronte e pensare al meglio per lei. Raccogliere e interessarsi alla storia, al vissuto, al percorso di ogni singolo migrante che incontriamo, solo conoscendo la sua narrazione potremmo comprendere il suo stato d’animo e progettare il suo benessere futuro. Fornire servizi con la stessa qualità che ognuno vorrebbe per sé stesso. Includere i migranti con disabilità in tutte le misure di integrazione e inclusione che la comunità di riferimento propone in modo tale che ogni servizio sia un’opportunità di crescita per il migrante stesso: educazione inclusiva e formazione professionale; integrazione nel mercato del lavoro; accesso ai servizi di base, come l’assistenza sanitaria, il diritto alla casa e ad una alimentazione adeguata. Aiutare il ricongiungimento familiare, quando possibile, in modo da favorire l’idea di una prospettiva a lungo termine della permanenza in Italia anche attraverso la creazione di un progetto personale inclusivo.
In conclusione, per tornare alla domanda iniziale, solo coinvolgendo attivamente il migrante con disabilità sarà possibile includerlo veramente e in maniera completa all’interno della comunità di riferimento. Chiediamoci sempre che cosa vorremmo noi se fossimo al suo posto.