La guerrilla gardening è una forma di attivazione civica che prevede il compiere azioni di giardinaggio e di riqualificazione urbana su terreni e arredi pubblici sui quali però non si ha il diritto legale d’agire, senza insomma chiedere permessi specifici alle autorità competenti. Una pratica nata a New York nei primi anni ’70 e che da allora si è diffusa in tutto il mondo, Italia compresa. VDossier ha incontrato e intervistato Leandro “Paradoxa” Grillo, volontario “guerrigliero giardiniere” attivo a Marino, borgo dei Castelli Romani. Con lui abbiamo cercato di tratteggiare le ragioni, le radici e gli orizzonti di senso di un volontariato di certo sui generis e nel suo caso irrimediabilmente intrecciato alla creatività artistica.
Come sei venuto a contatto con questa forma di attivismo? “Il mio primo contatto con la guerrilla gardening è stato tramite un’amica d’infanzia e che ha proprio scritto la tesi su questo fenomeno internazionale, riflettendo sul suo favorire la rinascita di luoghi per esempio frequentati dalla grave emarginazione. Nel concreto però il mio ingaggio in questa attività è figlio di una reazione istintiva: avendo viaggiato tanto e avendo visto tanti bei posti curati e coccolati, una volta in lockdown ho iniziato a non sopportare più il degrado che si poteva incontrare in determinati angoli del mio comune. È un po’ la famosa teoria delle finestre rotte, cioè che un luogo già interessato da un processo di degrado, se non si inverte la tendenza con azioni di ripristino, se non attenzionato, si degraderà sempre più, attirando altro degrado. Ho deciso quindi nel mio piccolo di invertire questa tendenza, sperando di innestare un movimento contrario, una moltiplicazione del bello, tramite un’eventuale emulazione di azioni dirette. Infatti, dove abito io da decenni c’è molta sfiducia e disaffezione verso chi amministra la cosa pubblica, indipendentemente dal colore politico, beninteso. Inizialmente la gente ti guarda come un pazzo, ti chiedono se prendi il reddito di cittadinanza e fanno fatica a comprendere che lo faccio semplicemente perché ero stufo di vedere delle fioriere prive di fiori e usate come cestino”.
Ma di preciso come hai iniziato? “La prima azione parte da un’area cani, dove c’era dell’erba alta. Il mio cane dopo una corsa tornò con una zampa ferita per un coccio di bottiglia, calpestato tra gli arbusti. Quel giorno avrei voluto ammazzare qualcuno, ma poi sono riuscito a convertire quella rabbia nell’andare a comprare un falcetto. Piano piano ho tagliato tutto il prato. Oltretutto è stato anche un modo per tenermi impegnato e in salute durante le limitazioni del lockdown. Da lì ho ampliato il range d’azione a tutto il comune di Marino. Contesto e contrasto il pensiero del ‘ma chi te lo fa fare?’. Il degrado è causato perché su dieci parsone, due sono quelle che sporcano, sette si disinteressano, una pulisce. Il mio agire cerca di attivare uno di quei sette, per cercare di invertire la rotta, contrastando due contro due chi sporca, cercando di arrivare quantomeno a pari e patta nel computo finale”.”
Fa bene solo al fisico o anche alla psiche? “Certamente, è altresì terapeutico perché tramite il guerrilla gardening si impara a convogliare in positivo la propria rabbia dovuta al brutto e al degrado che ci circonda, imparando a controllare tale emozione, tale moto di sdegno, evolvendola in un’azione costruttiva, generativa, capace di risolvere il problema, problema che quindi smetterà di ferirti ogni volta che ci passerai davanti”.
Dove però hai imparato tutte le tecniche che impieghi nelle tue azioni di guerrilla gardening? “Sono autodidatta, o almeno lo ero in principio, perché dopo poco ho iniziato a frequentare l’Università, corso di scienze naturali. Ho approfondito così nozioni teoriche e principi tecnici. Il mio obiettivo è quello di portare come tesi proprio una riflessione sul rapporto tra GG e arricchimento biodiversità aree urbane, incentivando gli insetti impollinatori a frequentare di più lo spazio urbano. In questo solco, combatto anche le mode. Capita, infatti, che vi siano periodi nei quali molti comuni decidano di piantumare, che ne so, solo piante esotiche, che magari sono anche infestanti. E questo non va bene. La biodiversità è vitale, e questo lo sapevo, ma ignoravo quanto il verde urbano fosse proprio fonte di tantissimi problemi nel già precario bilancio italiano della biodiversità. E l’ho capito bene solo frequentando l’Università”.
Ma perché non operare dentro un contesto associativo? “Il mio comportamento da cane sciolto deriva anche dalla consapevolezza che il tempo per agire è poco e prezioso e chi percorre la legittima via del fondare un’associazione, ma anche chi pazientemente compila richieste su richieste per far intervenire l’istituzione preposta, di fatto sceglie di investirne parte di esso in queste cose burocratiche, togliendolo all’azione. La guerrilla gardening è un gesto di civiltà e quindi non comprendo proprio perché devo chiedere il permesso alle autorità”.
La vostra azione solitaria può dare qualcosa in dote al volontariato, diciamo, classico? “Noi guerrilla gardeners possiamo portare al tavolo del dialogo con il non profit una cosa importante: essere sentinelle di territori marginali, periferici, fungendo da cartina di tornasole per capire la salute comunitaria e sociale di questi luoghi spesso dimenticati dalle amministrazioni, ma anche involontariamente dall’associazionismo. Perché spesso le grandi realtà del non profit si occupano di progetti di rigenerazione urbana sì, ma concentrano l’azione su obiettivi di larga scala e su territori non sempre periferici. Per il singolo vaso, per l’aiuola sotto casa, è difficile che si muovano insomma. Invece io credo che accanto alla loro meritoria azione, debba esistere un’azione quotidiana e capillare, a Km0. Anche perché un conto è ripristinare l’arredo urbano, che li lo metti e lì rimane (o almeno si spera), un conto è occuparsi del verde, cioè di esseri viventi, che vanno seguiti con costanza e non con interventi una tantum, seppur ben organizzati”.
Quindi c’è speranza di vedere un punto di contatto tra associazionismo e guerrilla gardening? “Non dimentichiamo che a praticare guerrilla gardening ci sono anche associazioni e comitati, anzi proprio i vecchi comitati di quartiere sono rinati con il guerrilla gardening. Ma purtroppo nel mio caso il colpo di fulmine non è scattato, proprio in termini di organizzazione dei tempi di vita e tempi di azione di tutti i miei compagni di viaggio. Poi non sono una persona che gli garba insistere, forzare le agende altrui per spingere all’attivazione. Quindi con le associazioni, i comitati e le attività di gruppo mi è parsa l’impressione che si ritardi troppo il momento dell’attivazione, perché vanno messe d’accordo più teste e più agende”.
Quindi l’azione solitaria non è solo una scelta esistenziale per te? “Bisogna pensare che gruppi troppo numerosi attirano l’attenzione delle autorità. In più se agiamo separati, possiamo compiere più azioni in più quartieri, moltiplicando il bello. Comunque sia, durante le mie azioni cerco di attirare il meno possibile l’attenzione, anche se quando mi si avvicinano i cittadini per chiederne conto sono sempre super disponibile al dialogo. Anche sui social mi piace spiegare tecnicamente il cosa e il come del gesto, facilitando la sua emulazione, piuttosto che farmi un selfie per farmi pubblicità”.
Quanto di generazionale c’è nel tuo operato? “La mia generazione è giustamente disillusa. Siamo i primi consapevoli di aver raggiunto una linea di non ritorno, a livello climatico e a livello anche di opportunità di vita in termini di lavoro e sicurezze. Siamo disillusi tutti e alcuni di noi anche paralizzati. La guerrilla gardening per me è stata uscire da questa paralisi. Semplicemente ho scelto di applicare un’anarchia creatrice, costruttrice che mi suggerisce che basta un’azione di buon senso, anche fatta dal singolo, per compiere un gesto giustificato. Però questo approccio da cane sciolto, effettivamente, mi ha portato lontano dalle realtà classiche del volontariato”.
Ma un gesto di un singolo, di un cane sciolto come ti definisci, non rischia d’essere estemporaneo e di non durare nel tempo? “Sono consapevole che dopo di me, nel mio comune, potrebbe capitare che nessuno continuerà la mia opera. Però, attenzione, facendolo da solo, in un luogo pubblico, capita spesso d’essere avvicinato da genitori, maestre e professoresse che vogliono portare il guerrilla gardening come progetto nelle loro scuole per insegnare agli studenti, già da piccoli, a prendersi cura del bene comune. Io ho fatto notare loro che potevano pure chiamare delle associazioni affermate sul campo della rigenerazione urbana. No, loro volevano come testimone proprio un singolo cittadino qualunque, chiamato a dare l’esempio ai ragazzini, non l’associazione strutturata e accreditata, ma l’immediatezza personificata in un semplice cittadino, comune”.
Le tue azioni ricevono molta risonanza sui social, quanto sono importanti per il tuo attivismo le piattaforme sociali? “I social sono importanti, anche perché ci permettono di scambiare pareri tecnici e consigli con gli altri guerriglieri. Anche solo per scegliere di piantumare delle piante che hanno meno bisogno possibile di acqua, perché il gesto di curarcene non passi a essere da volontariato a lavoro. E poi i social, il confronto con persone impegnate sullo stesso fronte, ci permette di moderare atteggiamenti e pratiche che potrebbero sfuggire di mano. Grazie al confronto costante con altri attivisti, l’azione di riqualificazione si fa più equilibrata. E poi c’è il conforto di non sentirsi soli, ci si tiene emotiva compagnia anche se siamo a Km di distanza, aiutandoci a normalizzare un comportamento che incredibilmente ancora sembra anormale, quando dovrebbe essere la norma civica”.
Questa visibilità non rischia di metterti nei guai essendo la tua un’attivazione di fatto fuori dalle regole? “Sì. Per esempio, io ho tirato troppo la corda con l’amministrazione del mio comune. Tramite i social ho infatti mosso delle critiche a determinate soluzioni di arredo urbano. Quando per esempio vedi che sono stati spesi soldi della collettività per la posa di ciclamini in pieno sole, pianta che deve invece rimanere in penombra… ti arrabbi. Sono durati un mese, poi tutto morto, ovviamente. L’ho fatto presente sui social, ho tolto le piante secche e l’ho sostituite con la primula del Madagascar, invasata con pezzettini di corteccia. Dopo due anni le piante stanno bene e sono ancora là vive e vegete con i loro fiori. Questa cosa ha dato fastidio, soprattutto perché la mia denuncia si è sparsa sui social, dove era spiegato anche cosa avevo fatto per ripristinare questo non sense. Mi hanno fatto capire, insomma, che non era cosa. E non era cosa neanche mettere dei barattolini, colorati, con dentro delle piantine dove c’erano prima appesi dei cestini, assenti perché rubati tempo fa. L’aver messo poi di fianco ai barattolini un pupazzetto recante il cartello ‘quando torneranno i cestini?’ ha reso palese il disservizio. Questa denuncia ha attirato molta tensione su di me”.
Per spiegare le tue azioni sui social hai inventato il personaggio di Paradoxa, il tuo attivismo rasenta insomma l’azione artistica, ti suona così strano allora il termine ‘volontariato’ riferito a chi sei o a cosa fai? “A essere sincero, il fatto di proporre le mie azioni come azioni artistiche e non come azioni di volontariato, mi aiutano a essere più ‘leggero’ nel rispondere alle domande dei passanti che di solito ti chiedono ‘chi ti manda e perché lo fai?’. Usando poi i social per aumentare la visibilità delle azioni, questa necessità di far capire chi sono, io cane sciolto, è diventata centrale. Così è nato il personaggio di Paradoxa e che ha deciso di battagliare il degrato. Un personaggio dei fumetti vero e proprio, vestito da guerrigliero, è che accompagna con ironia le foto dei miei post. Così stempero la possibile tensione con le istituzioni preposte. L’Arte, l’azione artistica ti permette, infatti, di essere fuori dalle righe, quando invece il volontariato, l’associazionismo, il comitato parla il burocratese e ragiona con le istituzioni in burocratese. L’essere cane sciolto, delegare la presenza mediatica a un personaggio di fantasia come Paradoxa, quindi all’Arte, mi permette di essere agile, veloce, posso insomma azzardare di più e passare sotto i radar del ‘c’è bisogno di un permesso’”.
E allora come nasce questo personaggio/fumetto dal nome Paradoxa? “Nasce dal paradosso che abita in me, dovuto alla mia educazione. Mia mamma artista, mio padre carabiniere. In me quindi convive una spinta anarchica, creativa, accanto a una istituzionale e conservativa, che ama il rispetto per la comunità, per il bene pubblico. La parte anarchica, diciamo, incide su quella consapevolezza del dover agire in prima persona per dare una sveglia a questa comunità che ha smesso di accorgersi del degrado nella quale vive e della mancanza di bellezza. Io sento proprio la necessità che la lamentela e la richiesta di cambiamento di questa tendenza sia visibile, incisiva, risuonando agli occhi di chi passa”.
E chi ti accusa di agire con uno schema autoreferenziale che pretende di andare oltre le regole? “Mi rendo conto che nel mio agire c’è tanto individualismo e un po’ di egoismo, ovviamente a fin di bene. Ma non lo faccio quando calano le tenebre, di nascosto, lo faccio volutamente di giorno, alla luce del sole. Perché sono convinto che non ho nulla da nascondere e che il mio agire non può essere criminalizzato. Anzi farlo davanti a tutti, mi ridona quel confronto con la cittadinanza, trasformandolo da un gesto individualista a un gesto comunitario. Perché discutendo con la cittadinanza riusciamo a ricordarci vicendevolmente che non esiste uno Stato in sé al quale attribuire incuria e inefficienza, ma che lo Stato siamo noi, tutte e tutti, in prima, diretta, persona. E questo dialogo sul posto, iniziato durante l’azione, grazie ai social e alle opportunità mediatiche, si allarga, continua, rilancia la voglia di fare di più, individuando altre criticità da sanare, soluzioni magari ancora non sperimentate, agendole in prima persona”.