“Ho ricevuto un messaggio poco fa, dalla Fiera del Libro di Francoforte; era l’immagine della pubblicazione ufficiale della fiera, e nella pagina dei libri speciali e degni di menzione c’era il libro di Ada. Vuol dire che anche in Germania, lontano da qualsiasi condizionamento, hanno reputato il libro come tale”.
Sono le parole di Alfredo Favi, marito di Ada d’Adamo, che lo scorso luglio ha vinto il Premio Strega con il suo “Come d’aria” (Elliot edizioni). Alfredo lo ha ritirato al posto della moglie: Ada d’Adamo era mancata tre mesi prima, ad aprile, a causa della patologia tumorale che l’aveva colpita. “Come d’aria”, che a novembre ha vinto anche il Premio internazionale Mondello, è un libro struggente, racconta del rapporto di Ada con la figlia Daria, nata nel 2005 con una grave malformazione cerebrale che l’ha resa del tutto invalida, e della scoperta della propria malattia.
Anche Ada D’Adamo era una persona speciale: nata a Ortona nel 1967, due lauree, a Roma si era diplomata al corso di avviamento dell’Accademia nazionale di danza. La danza era il suo mondo, e su questo mondo aveva scritto anche diversi saggi. Poi la nascita di Daria, le grandi difficoltà, la malattia.
Alfredo, che libro è “Come d’aria”?
La forza di questo libro sta nel fatto che è partito dai lettori. È stato pubblicato da una casa editrice –Elliot– che non aveva certo la forza promozionale dei grandi editori. Ma ha cominciato a circolare tra gli amici, che magari non lo trovavano in libreria. Poi c’è stato il passaparola, e a dirla tutta non sappiamo nemmeno noi che cosa è successo; come ha preso, prima lentamente, poi sempre di più, il volo. Ada me lo inviò via mail una sera, l’aveva intitolato semplicemente “Daria”. L’ho letto per primo, in una notte, senza dormire. Come è già stato raccontato, il libro nasce anche da una sollecitazione avvenuta anni fa, quando Ada aveva scritto la lettera a Corrado Augias, nel 2008. In quella lettera, pubblicata sul quotidiano la Repubblica, Ada denunciava l’insufficiente sostegno in Italia alle famiglie con disabili, ribadendo inoltre la necessità di leggi che garantissero il diritto all’aborto. Elena Stancanelli aveva visto in quella lettera, oltre all’urgenza del tema, una modalità di scrittura “alta”. Per questo le aveva spesso suggerito di scriverne una storia. Ma Ada metteva sempre in dubbio le sue capacità… Però lei appuntava qualsiasi cosa, con metodo. Annotava tutto quel che vedeva, sia nel suo mondo di studiosa della danza, sia in altri accadimenti. Ha incominciato ad annotare le cose che succedevano a Daria, il percorso della malattia, la vicinanza –o la lontananza– dei medici, le parole delle persone che davano i consigli giusti, quelle di chi banalizzava. Tutti questi pezzi di carta sono diventati un libro. Un libro che è una lettera a se stessa, al suo passato, alla figlia, cui dice che sa che non l’avrebbe mai letto. Io credo che siano almeno sei anni di scrittura, anche se il libro prende forma negli ultimi due anni. La spinta forte è stata affrontare la malattia, la sfida a continuare a occuparsi di Daria.
Il libro è anche uno spaccato della società e della sanità, vista da chi deve fronteggiare la disabilità e la malattia.
Abbiamo rapporti positivi con la medicina e con gli ausili. Anche se abbiamo sperimentato gli estremi: da chi ci diceva “questi bambini sono come le piante, basta dargli un po’ d’acqua e stanno bene”, a chi prospettava la morte imminente di Daria se non fosse stata subito operata. In mezzo abbiamo incontrato tante figure. Tra queste, anche persone straordinarie, che dopo la lettura del libro si sono poste tante domande. Come quella pediatra che è venuta da me e mi ha chiesto: come ci si comporta con un malato e un genitore in questa situazione? fino a che punto si deve raccontare la verità? Anche per questo motivo stiamo dando vita, con un’amica docente di antropologia medica, a un’iniziativa che vuole portare questi temi tra i medici, soprattutto i pù giovani. Perché sono cose che vanno affrontate già all’università.
Una volta hai detto che questo libro contiene la “spietatezza della verità”.
Spesso non facciamo i conti sull’idea che abbiamo dell’immortalità. Poi però la spietatezza della vita ti colpisce, e ne sei ferito a morte. E ti chiedi “perché ora? perché a me?”. Ce lo chiediamo, ma non ci diamo una risposta. Continuiamo a dirci “perché, perché io, perché il destino?”. La soluzione ce la dice Ada, ma è una presa d’atto su che cos’è la vita, che ti dà gioie, dolori, malattia. È spietata e non ti prepara. E come ci si prepara d’altra parte? Oggi tutti si sentono con i super poteri, illusi da tutta questa tecnologia. La realtà è che siamo sempre più fragili. Ho in mente il libro di Emanuele Trevi, “La casa del mago”, dove il mago è suo padre e in quella casa Trevi ci è tornato solo dopo lunghi anni. In quel libro, tra le tante cose, Trevi racconta di quando il padre lo porta alla biennale di Venezia: la madre era molto preoccupata, “tuo padre non è abituato a camminare insieme, se stai dietro ti perde”, gli raccomanda. E infatti, in piazza San Marco, Trevi si ritrova da solo. Ecco, il tema è occuparsi degli altri. Pensiamo di poter fare tutto, poi la vita ci mette davanti all’inaspettato. Come perdersi e non trovare più tuo padre.
C’è molta fisicità in questo libro. C’è fatica e stanchezza.
Questa cosa del corpo era insita in Ada, che viveva per la danza. Una volta una pediatra le aveva consigliato di stringere la bambina quando la vedeva nervosa o piangeva. Era una cosa che succedeva spesso di notte: quando io ero stremato ma Daria non si calmava, Ada se l’avvolgeva addosso. Un corpo a corpo, una fusione. E funzionava spesso, forse perché c’era la percezione di protezione. Questa cosa è continuata anche quando Daria è cresciuta, rimanendo esile ma diventando lunga, pur se più difficile da gestire. Avevamo anche un nostro rito serale, una specie di scherzo: sul divano, davanti al televisore, Daria in mezzo a noi, io la tiravo a me e lei si gettava verso la madre… Poi Ada, a causa della malattia, si è messa il busto, e Daria faceva fatica a sentire il corpo di sua madre. Questo disagio, in seguito, si è acuito con la malattia, che ha portato un allontanamento fisico: Ada ha dovuto, per forza di cose, scegliere di ridurre la cura su Daria e occuparsi di sé.
In questo libro si parla molto anche di te.
Questo libro fa emozionare le persone che non ci conoscono, immagina il colpo che ha dato a me. Ci ho scoperto cose che non sapevo, e non sono stato il solo. Ho detto chiaramente che all’inizio ho reso la vita difficile ad Ada. Era una mia paura, e gli uomini spesso le scaricano sulle persone vicine. Venivo da un matrimonio concluso in maniera complicata, e temevo che avere un altro figlio potesse incidere sul mio rapporto con gli altri figli –cosa che in effetti è accaduta —. Ma io ho molto amato Ada, e a un certo punto, come presa di coscienza di responsabilità, ho capito che questa cosa non apparteneva solo a lei, e mi ci sono riavvicinato, dopo quattro o cinque mesi di gravidanza. Quando è nata Daria ero in procinto di partire per il Sudafrica per lavoro. Sull’autostrada tra Roma e Napoli, mi sono fermato, mi sono detto: ma dove sto andando. E sono tornato a Roma. Ho preso io per primo Daria in braccio. Ada non riusciva a tenerla, era troppo forte il dolore. Io invece l’ho accolta, le ho voluto bene da subito. Avevo esperienza coi miei figli, sapevo che cosa fare. È stato subito amore. In questi anni ho sempre raccontato, al di fuori anche della malattia di Ada, che ho scoperto un nuovo modo di amare, sconosciuto, al quale devi dare tanto e che ti restituisce piccole cose, ma che sono un’immensità. Anche fosse solo un piccolo sorriso. Ada dice “adoro la mia bambina imperfetta”, ed è così. Una cosa più bella, che dolorosa.
Il Premio Strega ha fatto sì che la storia di Ada e Daria fosse conosciuta come merita.
Il libro è stato pubblicato nel gennaio 2023, e la storia della candidatura è partita quando per la prima volta Ada ha presentato il libro a Roma. Già camminava a stento, veniva fuori da un ricovero. Per quella presentazione mi ha fatto penare, perché voleva avere tutto sotto controllo! L’evento fu eccezionale, con tante persone, un silenzio surreale, lei bravissima. Nonostante la stanchezza, prese a firmare le copie, e a ciascuno scrisse una cosa diversa. Da lì iniziarono le voci per la candidatura. Ma lei aveva paura, perché non ci voleva rimanere male. Allora le dissi: viviamo il momento in cui sei candidata, poi vediamo. “Ma se poi mi accettano io lo voglio vincere” fu la sua risposta… Come è noto, seppe di essere tra i dodici candidati al premio due giorni prima di morire. Ricordo che ci rifletté e poi mi chiese: “Chi sono gli altri undici”. Ada era così, voleva avere tutto sotto controllo.
Alfredo, come sta Daria?
Daria sta bene, piano piano si sta abituando all’assenza della madre, anche se l’abitudine non esiste in queste situazioni. In casa non si è mosso niente rispetto a quando c’era Ada. Anche lo spazzolino è ancora lì. Togliere le cose di Ada è una cosa che fa paura a me, ma sarò costretto a farlo prima o poi, e allora affronteremo quel vuoto ora nascosto dagli oggetti di Ada. All’inizio non facevo il nome della mamma, e chiedevo agli amici di non nominarla. Poi però mi sono detto: ma perché? A me parlare di Ada fa bene; mi emoziono, certo, ma così è sempre con me. Allora parlo a Daria della mamma. Cerco di far sì che sia sempre presente con noi. E lei un po’ si è rasserenata. Poi quella è nata sorridente, beata lei.
ALFREDO FAVI: Alfredo nasce acquario, segno e ascendente. Quanto sia distante la terra dai suoi piedi non riesce subito a percepirlo. Segna l’incremento demografico dei cittadini napoletani nel 1955. È convinto che nessuno, nato solo un lustro più tardi, possa vivere quell’intensità dei suoi primi venti anni così come ha fatto lui. La politica lo forma e quei valori ormai suoi sono ancora vivi, adesso, a quasi 50 anni di distanza. Dopo il diploma, fa scelte anomale: medicina, economia e commercio, finalmente architettura. Nessuno di questi “mestieri” sono diventati il suo presente. Si sente artista ma finisce per fare l’art director in pubblicità: il linguaggio della comunicazione gestito dalla persona più introversa del pianeta (almeno così dicono gli amici più cari). Un matrimonio, finito come le università, da cui nascono due magnifici figli; poi gli amori più grandi, Ada e la figlia Daria. Continua anche oggi a sognare, benché i suoi piedi da un po’ abbiano toccato terra.