“Un tempo si faceva un lavoro senza farsi troppe domande, lasciando al tempo libero impegno volontario e passioni. Ecco, i tempi sono cambiati”. Matteo Bartolomeo è cofondatore e partner di Avanzi – Sostenibilità per Azioni, una società (oggi Società benefit) di Milano che dal 1997 si occupa di temi di innovazione sociale, rigenerazione urbana, sviluppo locale e impact investing, con clienti che negli anni hanno visto grandi gruppi quotati (come UniCredit Group, MPS, UBI Banca, Crédit Agricole, Edison, Snam, Terna, Magneti Marelli, …), grandi organizzazioni non profit (Fondazione Cariplo, Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, Fondazione Cassa di Risparmio di Piacenza, Fondazione Housing Sociale, WWF, Action Aid, FAI, …), enti pubblici (Commissione Europea, Regione Lombardia, Comune di Milano, Comune di Torino, …) e altre importanti istituzioni quali Cassa depositi e prestiti.
Matteo Bartolomeo, i tempi sono cambiati e ci pare di assistere in misura sempre maggiore al fenomeno per cui organizzazioni che partono da una dimensione volontaristica, poi diventano attività produttive, capaci di generare posti di lavoro. Un po’ come se il volontariato fosse la prima fase di un percorso imprenditoriale: con un gruppo di amici inizio a fare teatro, iniziative ambientali o assistenza, poi cerco di farne una professione.
È un fenomeno che indubbiamente esiste, ed è molto visibile in Italia e anche all’estero. Lo si deve a molte ragioni, la principale delle quali, a mio parere, risiede nel fatto che molti, e non solo tra i giovani, ricercano un “senso” alla propria vita nel tentativo di conciliarne anime diverse, collegando mondi che stavano separati: il proprio lavoro e le proprie passioni, lasciando magari il volontariato per la fase della pensione. I tempi sono cambiati e oggi, lavorando su forme associative prima e imprese poi, le persone cercano di unire questi due “percorsi” personali, professionali, politici. Io lo trovo molto bello: c’è chi inizia con il volontariato, facendo cose che gli piacciono con amici e persone che la pensano allo stesso modo, e poi vuole farne il proprio lavoro.
Ci sono ambiti in cui questo fenomeno è più diffuso?
Direi molto nella cultura, e va sottolineato che si tratta di un mondo particolare: modelli d’impresa che rimangono, magari dal punto di vista aziendale, di dimensioni piuttosto ridotte, ma molto ricchi dal punto di vista dei contenuti. Forse si vede meno nell’ambito dell’ambiente e della sostenibilità –pur con notevoli esempi di eccezioni– certamente molto nell’assistenza e nella cura del territorio intesa come rigenerazione urbana. A ben vedere sono ambiti che spesso si uniscono e si combinano, tra cura e cultura, che hanno l’obiettivo comune di rigenerare comunità.
Come avviene il passaggio?
Faccio un esempio: abbiamo lavorato per anni con Fondazione Unipolis su “Culturability”, un programma pensato per sostenere le nuove organizzazioni e i nuovi professionisti del settore culturale e creativo. Il bando ha fatto numeri interessanti, con oltre duemila progetti presentati in un quinquennio. Il quel laboratorio abbiamo visto iniziative ancora embrionali e liquide svilupparsi in imprese che hanno saputo tenere nel tempo, al centro del proprio agire, la generazione di impatti culturali e sociali. Penso poi al programma “Scuola dei Quartieri”, promosso dal Comune di Milano, che ha messo a disposizione, attraverso un bando, supporto manageriale e fondi per finanziare la nascita di progetti imprenditoriali a finalità sociale e culturale ancora allo stadio embrionale. Al bando potevano partecipare gruppi informali di cittadini –senza limiti di età, cittadinanza o titolo di studio– che avessero un’idea per migliorare la qualità della vita nei quartieri e volessero costruire una nuova organizzazione non profit per realizzarla. L’obiettivo strategico è stato quello di fare emergere soggetti imprenditoriali nuovi, in grado di attivare e sostenere la rigenerazione di quartieri. Scovare germogli promettenti e sostenerne la fase di primo sviluppo. La partecipazione a questi e altri programmi ha rappresentato un’opportunità e uno snodo rilevante nell’azione di gruppi, inizialmente informali e liquidi. Una scusa per porta da iniziative sporadiche, legate a una volontà talvolta transitoria e un’azione intermittente, a iniziative stabili, a nuove piccole istituzioni. L’esempio più plastico è rappresentato dalle iniziative che passano attraverso la rigenerazione di uno spazio, che inevitabilmente costringe gli attori sociali, diventati imprenditori sociali, a definire regole d’ingaggio, processi, equilibri, nuove configurazioni e allocazione delle risorse. Un percorso talvolta traumatico, una cartina al tornasole che implica scremature dolorose, pause e ripartenza.
Chi è protagonista di queste esperienze? Che caratteristiche ha?
Da queste esperienze emerge una grande diversità biografica, con alcuni tratti comuni: visione politica, ricerca di un senso dell’agire, impresa come mezzo e non come fine, azione collettiva e performativa, rilettura, nella sfera imprenditoriale, di esperienze di vita, e non solo tra i giovani, ricercano un “senso” alla propria vita nel tentativo di conciliarne anime diverse, collegando mondi che stavano separati: il proprio lavoro e le proprie passioni, lasciando magari il volontariato per la fase della pensione. I tempi sono cambiati e oggi, lavorando su forme associative prima e imprese poi, le persone cercano di unire questi due “percorsi” personali, professionali, politici. Io lo trovo molto bello: c’è chi inizia con il volontariato, facendo cose che gli piacciono con amici e persone che la pensano allo stesso modo, e poi vuole farne il proprio lavoro.
Il mercato del lavoro, con le caratteristiche odierne di fluidità, incertezza e precariato, ha favorito questo tipo di percorsi?
Leggo in varie fasce di età la tendenza, che reputo positiva, a dare una crescente importanza al senso del proprio lavoro e della propria vita. Questa onda crescente, che ha portato ai fenomeni ampi delle “great resignation” in tutti i Paesi occidentali, sta portando nuova linfa, persone ed esperienze nel campo dell’imprenditoria sociale. Non possiamo tacere di alcune difficoltà croniche che una lavoratrice e un lavoratore, riposizionatisi nel mondo del lavoro con una piccola iniziativa di imprenditoria sociale, è probabile che incontrino. Forse la più importante, ma non certo la sola, è rappresentata dal reddito. In una fase non congiunturale in cui il costo della vita è aumentato e continua a crescere, fare nuova impresa in ambito sociale vuol dire lottare per una difficile stabilità reddituale e fare rinunce. La casa, i figli e i viaggi possono diventare obiettivi irraggiungibili, mentre sono dietro l’angolo frustrazione, autosfruttamento, ansia, tradimenti.
Esistono ibridi? Realtà che uniscono volontari e lavoratori?
Ce ne sono tanti. Nel mondo della cultura è pieno: volontari che creano società commerciali che vendono servizi che alimentano il conto economico dell’associazione. Ad esempio nello spettacolo, con bar e piccola ristorazione a dare ossigeno alle attività culturali.
E percorsi contrari? Imprese che diventano realtà di terzo settore?
Ci sono, anche se magari non sono incardinate in una forma istituzionale stabile. Penso a gruppi di dipendenti che sviluppano progetti, insieme all’impresa per la quale lavorano, con finalità sociali. È accaduto per molti dipendenti che si sono mobilitati in occasione della guerra in Ucraina, magari raccogliendo vestiti e generi di prima necessità che sono stati stoccati in spazi messi a disposizione dell’azienda.
C’è una finanza che investe nelle transizioni dal volontariato all’impresa?
Per gli intermediari finanziari, chiusi tra molti vincoli anche di tipo regolamentare, investimenti di questo tipo sono rari e difficili. Ma non impossibili, ancorché non sistematici. Con il fondo di investimento Avanzi Etica SicafEuVECA spa (a|impact) abbiamo fatto qualche esperimento, che sta dando buone indicazioni. Penso a Casa dello studente. Nata in provincia di Brescia –come associazione di psicologi, educatori, pedagogisti– si è evoluta in cooperativa sociale e oggi anche in società a responsabilità sociale benefit e startup innovativa.
MATTEO BARTOLOMEO: Laureato in Economia e commercio, ha conseguito un master europeo in gestione ambientale. Dopo alcuni anni in Fondazione Eni Enrico Mattei, contribuisce alla fondazione di Avanzi, di cui oggi è presidente. Esperto di innovazione sostenibile, green economy e stakeholder engagement e corporate social responsibility. È stato amministratore delegato di Make a Cube, il primo incubatore italiano dedicato a start up ad alto valore ambientale e sociale. Coordina alcuni progetti di ricerca applicata e di consulenza a favore della Commissione europea, di grandi imprese e amministrazioni pubbliche. Al Politecnico di Milano è docente a contratto in Economica dell’ambiente e dei beni pubblici (Facoltà di Architettura e Società).