Se ne parla sempre di più e il dato Istat certifica un calo notevole negli ultimi anni, aggravato dalla pandemia: circa un milione di volontari italiani in meno, almeno all’interno del non profit. Ma c’è qualcos’altro: il volontariato sta cambiando pelle e, dal punto di vista di esperti e di protagonisti di questo mondo, non sta perdendo forza.
VDossier dedica al tema due estesi articoli di approfondimento, con le voci di esperti e analisti del volontariato e il punto di vista dei presidenti di grandi reti di associazioni come Auser e Federavo. “Da tempo l’Istat rimanda l’immagine che i cittadini si rapportano in modo diverso al fenomeno volontariato: sembrano preferire un impegno individuale, rifuggire riunioni, burocrazia, statuti – spiega Gino Mazzoli, esperto di welfare e processi partecipativi e voce di riferimento anche per queste tematiche. Il volontariato oggi è una struttura portante del welfare e della vicinanza alle situazioni di difficoltà oltre che esprimere, secondo il dettato costituzionale, le varie forme in cui la personalità umana si sviluppa: una parte della nostra identità può crescere e dispiegarsi solo in situazioni di gruppo. La connessione tra vecchie e nuove forme di volontariato si propone perciò come il compito più urgente è più importante per i Csv”.
Anche Sebastiano Citroni, professore associato in Sociologia dei processi culturali all’Università dell’Insubria e autore del libro “L’associarsi quotidiano. Terzo settore in cambiamento e società civile” propone la necessità di saper leggere e comprendere i nuovi dati. “Cambiando la scala – spiega-, quello che sembra un segno negativo di più di un milione di volontari diventa meno centomila. È meno rilevante. Dal 2011 al 2021 è meno 2%. Intorno al 2015 c’è stato un picco di cui hanno parlato anche colleghi, molto bene, dell’impegno civico per l’ondata di attività a favore dei migranti che le organizzazioni più grandi sono riuscite a incanalare.
È un calo che non è così drammatico e spostando l’asticella c’è un ridimensionamento. La base di organizzazioni è aumentata del 20%. Il calo è del 2% e non del 16%, è una diminuzione maggiormente diffusa nelle organizzazioni più grosse. C’è stata una relativa anomalia nell’ambito di una tendenza che non è incoraggiante, ma nemmeno così drammatica”. Stefano Laffi, economista e sociologo che svolge da trenta anni attività di ricerca sociale, parla delle modalità con cui il volontariato giovanile ha modificato il sistema. “C’erano più giovani pronti a ingaggiarsi che associazioni ad accogliere. C’erano molte defezioni di persone di età più avanzata perché le organizzazioni sono storicamente fatte maggiormente di anziani. Le associazioni non erano pronte ad accogliere i giovani. C’è una differenza abissale su come adulti o giovani guardano ai temi: la questione generazionale, i modelli in cui sono i maschi a comandare. Beh, i ragazzi sono portatori di un messaggio nuovo più egualitario nei ruoli, mentre le associazioni non sempre hanno accettato questa nuova disposizione del potere”.
Secondo Francesco Colombo, presidente nazionale di Federavo, una grande associazione che si occupa di assistenza ospedaliera, “i volontari che arrivano post pandemia sono molto motivati, a volte anche più scolarizzati, sono persone valide, magari in numero inferiore rispetto a quello che servirebbe. Ma credo che non dobbiamo focalizzarci su questo aspetto, ma su quello qualitativo. Le persone sono nuove e in associazione continueranno, magari con meno quantità ma più stimoli”.
Il presidente nazionale di Auser, Domenico Pantaleo, ci racconta il suo punto di vista sullo stato di salute del volontariato, mettendolo in relazione anche con i mondi esterni. Secondo Pantaleo oggi si richiede “in primo luogo l’attitudine relazionale e maggiori competenze, rivolgendosi alle persone più fragili, indifese e sole. Il primo approccio – racconta – diventa fondamentale per fare percepire il volontario come amico. Ciò stimola i volontari a migliorarsi e a mettersi in gioco continuamente”.
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