di Ksenija Fonović – 19 novembre 2024

Le aree interne tra voglia di restare e limiti concreti all’uguaglianza

 I Comuni ultraperiferici sono svantaggiati perché sono molto distanti dai grandi centri. Le risorse finanziarie previste da Ue e dal Piano nazionale di ripresa e resilienza sono, sulla carta, più che consistenti ma è da capire come verranno impiegate. In compenso, l’aspettativa di vita in queste zone, in particolare al Sud, è più alta della media

Lo spopolamento delle aree interne dovrebbe essere considerato alla stregua di una grande questione nazionale. Lo sostengono gli animatori di Riabitare l’Italia – un’associazione che è la concretizzazione collettiva di un’idea alternativa e propositiva di sviluppo locale, che muove da un approccio scientifico transdisciplinare. Olistico quindi, non per addizioni sperabilmente complementari di discipline diverse. Pensare un territorio, e ancor di più, ripensarne il futuro – o meglio, i suoi possibili futuri – non può essere appannaggio di una particolare branca di esperti.

La questione, infatti, non è affrontata a livello nazionale nell’ambito di un inquadramento ministeriale, ma è governata da un’articolazione apposita del governo. In effetti, l’Agenzia per la coesione territoriale quando nasce, nel 2012, per decreto dell’allora presidente del Consiglio Mario Monti, accredita la centralità del tema delle aree interne in maniera trasversale per le politiche pubbliche economiche e sociali e promuove una cultura istituzionale di lavoro sui dati, monitoraggio e valutazione attraverso i Fondi strutturali e di investimento europei. L’accordo di partenariato con l’Ue del 2014 introduce la Strategia nazionale per le aree interne (Snai) che, confermata anche per il settennato 2021-2027, rappresenta l’inquadramento principale per le analisi e gli investimenti nei territori depressi e arretrati dell’Italia.

Valutati come tali in base ai quali criteri? Da chi?

Aree interne sono territori considerati periferici a causa, principalmente, di distanza eccessiva dai servizi essenziali. Filippo Barbera, già nel 2014, lo definisce in maniera semplice: “Scuola, sanità e mobilità sono precondizioni dell’abitare”. Le zone interne, quindi, sono territori dove vivono persone che, nell’approccio delle capacità dell’economista e filosofo indiano Amartya Sen, non hanno possibilità effettive di perseguire il benessere proprio e delle loro famiglie. Sono territori recintati da “ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione” che l’articolo 3 della Costituzione impone sia “compito della Repubblica rimuovere”. Quindi i dati dell’Istat e del portale OpenCoesione degli ultimi venti anni, le analisi dei centri di ricerca come Forum disuguaglianze e diversità e Aria (centro di ricerca per le Aree interne e gli Appennini dell’università del Molise), gli studi, i progetti… sono strumenti di autovalutazione dello Stato rispetto alla propria capacità di essere tale.

Al momento, questo Stato, a leggerlo attraverso la lente delle aree interne, risulta spaccato in due.

Sono considerate aree interne la metà delle municipalità (oltre 4mila Comuni, il 48,5 per cento del totale) e più della metà del territorio (58,8 per cento della superficie dell’Italia –  Istat, 29 luglio 2024). Come non fosse abbastanza grave, questa spaccatura non è né ferma né uniforme.

La componente territoriale di aree interne aumenta con il tempo: nella Snai 2014 i comuni periferici e ultraperiferici rappresentavano il 22 per cento dei comuni totali, in cui risiedeva il 7 per cento della popolazione italiana. Nella Snai 2021 sono aumentati dell’8 per cento. Le 56 nuove aree coinvolgono 764 Comuni con due milioni di residenti. Gli abitanti dei comuni periferici (7,8 per cento ) e ultraperiferici (1,2 per cento) rappresentano il 9 per cento della popolazione.

Quasi un italiano su dieci impiega più di 40 minuti a raggiungere una scuola superiore, un ospedale e una stazione ferroviaria. E Comuni polo o Poli intercomunali si sono ridotti di numero tra il 2014 e il 2020 del 29 per cento.

Ogni accorpamento tra licei, ogni servizio sanitario che chiude i battenti, ogni treno regionale che viene soppresso, provoca una lunga onda d’urto che impatta negativamente anche sulle zone interne. Per questo la strategia di coesione territoriale non può essere perseguita come una politica, ma può funzionare solo se la questione viene presa in carico da tutte le politiche, in chiave intersezionale.

Questo sguardo di stampo olistico e trans-disciplinare, che parte dalle analisi per informare la programmazione politica istituzionale, rappresenta una delle chiavi di volta dell’approccio nei fatti radicalmente alternativo di cui la Snai è espressione. Si tratta dell’approccio place-based, strategia per la “coesione sociale basata sui luoghi”, che trae linfa dall’articolo 174 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e poggia su un compiuto sistema di governance multilivello e multistakeholder. La visione dello sviluppo locale basato sui luoghi trova la sua più compiuta formalizzazione nell’Agenda per la riforma della politica di coesione (del 2009), nota come Rapporto Barca.

L’autore è Fabrizio Barca, all’epoca dirigente generale al ministero dell’Economia e delle Finanze, in seguito ministro, che coagula i colleghi del governo Monti – primariamente Renato Balduzzi della Salute, Mario Catania delle Politiche agricole, alimentari e forestali, Elsa Fornero del Lavoro e delle politiche sociali con delega alle Pari opportunità, e Francesco Profumo dell’Istruzione, dell’università e della ricerca – a sviluppare la strategia italiana per le aree interne quale asse portante per la programmazione 2014-2020 della politica regionale. È un momento di straordinaria convergenza tra l’Italia e l’Europa, in un momento di acuta congiuntura economica, conseguente alla crisi finanziaria globale del 2008.

Era un contesto che presentava significativi parallelismi con la situazione attuale: crisi acuta e recupero difficoltoso, relazione conflittuale tra lo Stato e l’Unione, intervento finanziario massiccio e conteso, disoccupazione. E anche, fari puntati sulle aree interne – a partire da una significativa riorganizzazione istituzionale.

Il 10 novembre 2023 il decreto del presidente del Consiglio determina la soppressione dell’Agenzia per la coesione e il trasferimento delle relative funzioni al dipartimento per le Politiche di coesione. Con questo cambiamento, la casa istituzionale della strategia di sviluppo locale, prima un’agenzia funzionalmente indipendente dotata di un proprio Nucleo di verifica e controllo (Nuvec), diventa la struttura del ministro per gli Affari europei, il Sud, le politiche di coesione e il Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza).

Le risorse finanziarie assegnate alle politiche di coesione per il ciclo 2021-2027, ammontano complessivamente a 142,6 miliardi di euro per il settennio 2021-2027. Si tratta di dotazioni Ue (Fondi strutturali Fesr e Fse+,  il Jtf – Fondo per la transizione giusta, incluso quanto assegnato su NextGenerationEU) e nazionali. In aggiunta, gli investimenti integrano significative convergenze con il Pnrr.

Oltre alla clausola trasversale che prevede che il 40 per cento degli investimenti del Pnrr sia destinata alle regioni del Sud, la Componente 3 della Missione 5, Inclusione e coesione , stanzia un miliardo e trecento milioni di euro per favorire lo sviluppo economico del Sud dell’Italia. Questi fondi sono destinati a: strutture sanitarie di prossimità territoriale (100 milioni di euro), interventi socio-educativi strutturati per combattere la povertà educativa nel Mezzogiorno a sostegno del Terzo settore (220 milioni di euro), ecosistemi per l’innovazione al Sud in contesti urbani marginalizzati (350 milioni di euro), e un adeguato sviluppo dei collegamenti delle aree che ricadono in Zone economiche speciali (Zes) con la rete nazionale dei trasporti (630 milioni di euro).

Le cifre sembrano indicare che le zone interne rappresentino in effetti una grande questione nazionale. L’onorevole Fitto non è certo novizio in materia; ha lavorato sulle politiche di coesione in tre prospettive cruciali complementari – da governatore della Regione Puglia, da europarlamentare e da ministro per i Rapporti con le Regioni e la Coesione territoriale. Rimane da vedere come perseguirà la politica europea “basata sui luoghi” che “promuove la fornitura di beni e servizi pubblici integrati adattati ai contesti e mira a innescare cambiamenti istituzionali.” (Rapporto Barca). La questione dirimente che qui si profila è la visione di sviluppo: quali obiettivi a lungo termine orientano le scelte di priorità per gli investimenti pubblici? Perché poche o tante, le risorse finanziarie sono comunque limitate, mentre negli ultimi anni le zone interne si stanno non solo allargando, ma anche svuotando. In primo luogo, di persone. Anche questo, non in maniera uniforme.

È il Mezzogiorno a gonfiarsi di vuoto (dati Istat, 29 luglio 2024).

Sono situate nel Mezzogiorno quasi la metà (44,8 per cento) di tutte le zone interne in Italia. Si tratta di due terzi (67,4 per cento) dei Comuni del Mezzogiorno (1.718). In Basilicata, Sicilia, Molise e Sardegna l’incidenza dei Comuni considerati area interna sono superiori al 70 per cento.

I Comuni ultraperiferici – i più svantaggiati perché più distanti dai poli di servizi essenziali – sono situati nel Mezzogiorno per quasi due terzi (59,9 per cento, 229 Comuni su 382).

In dieci anni (dal 2014 al 2024) la popolazione residente nelle aree interne è diminuita del 5 per cento, tre volte e mezzo di più che quella dei centri (1,4 per cento).

Più si è distanti dai poli di servizi, più è forte l’emorragia dei residenti: nei Comuni periferici la popolazione cala del 6,3 per cento, in ultraperifici del 7,7 per cento. Il tasso di (de)crescita demografica mostra la stessa tendenza: rispetto alla media italiana di -4,8 per mille, dal 2002 a oggi, i Comuni periferici passano da -1,5 a -6,3 per mille, e quelli ultraperiferici da -2,3 a -7,3 per mille. Il disequilibrio tra nascite e morti è più accentuato che altrove.

Il flusso migratorio nazionale è unidirezionale. La metà di chi lascia il luogo di residenza di origine, parte dalle aree interne del Mezzogiorno (46,2 per cento delle partenze nazionali). La metà delle partenze nazionali (50,8 per cento) sono accolte dai centri del Nord.

Anche i giovani laureati (25-39 anni) lasciano le aree interne: in 20 anni (tra il 2002 e il 2022) la perdita è pari a 160mila giovani laureati.

Però, l’aspettativa di vita nelle aree ultraperiferiche del Mezzogiorno è più alta della media. Anche, il Mezzogiorno registra risultati migliori della media nazionale su qualche indicatore, in maniera apparentemente incongrua. Segnali di vitalità e buona qualità della vita? Potrebbero essere delle finestre aperte sul futuro?

La ricerca-azione quanti-qualitativa dell’associazione Riabitare Italia Giovani dentro (2023) ha indagato le motivazioni che spingono i giovani e le giovani tra i 18 e i 39 anni a restare o a ritornare nei territori delle aree interne italiane, analizzando nel contempo le dimensioni socioeconomiche di queste aree, con una attenzione particolare al potenziale di sviluppo sostenibile legato al settore agro-silvo-pastorale.

Emergono dal report indicazioni importanti per i decisori pubblici, e per il terzo settore.

Il concetto di restanza, consapevole e attiva, ancora la voglia di reinventarsi e reinventare il futuro del territorio sulla qualità della vita e senso di comunità. La socialità vive di spontaneismo e informalità: è di vitale importanza, ma rifugge dalle forme strutturate di attivismo associativo. La percezione della natura si è evoluta, compenetra dimensioni prettamente individuali con vocazione imprenditoriale.

Sembra maturo il momento di mettere da parte l’ossessione per l’adeguatezza degli strumenti e di ripartire dai fondamentali: cosa serve per la vita buona nelle zone interne?

Una ciclopedalata nei pressi di Amandola (provincia di Fermo) © Csv Marche

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