di Marco Benedettelli – 19 novembre 2024

Matteo Innocenti. Ecoansia in crescita

 Lo psicoterapeuta tra i primi a studiare il fenomeno. L’associazionismo pro ambiente efficace per la guarigione

Lo sfruttamento predatorio e irresponsabile delle risorse naturali e l’inquinamento stanno portando il pianeta verso un cambiamento climatico ormai sempre più evidente e dalle prospettive catastrofiche. Con l’innalzamento delle polveri sottili nell’aria non aumentano solo le malattie respiratorie, ma cresce anche il disagio psicologico e mentale di quelle persone più sensibile al tema, come lo sono i giovani che guardano al proprio futuro con profonda preoccupazione. L’ecoansia, quel senso di paura e angoscia innescato dalla presa di coscienza del declino che sta subendo l’ecosistema attorno a noi, è ormai un sentimento tracciato, riconosciuto, misurato in studi, sempre più abbondanti, dagli psicologi.

Matteo Innocenti, medico psichiatra e psicoterapeuta, nato nel 1989, è tra gli scienziati che per primo in Italia si stanno addentrando nel tema. Vi ha dedicato anche un saggio, recentemente uscito per la casa editrice Erickson, dal titolo “Ecoansia, i cambiamenti climatici tra attivismo e paura”, dove si analizza il fenomeno da un punto di vista clinico e si indicano strade terapeutiche per affrontare questa emozione sempre più diffusa nelle nuove generazioni. Associazionismo, volontariato ambientale, capacità di fare rete sono le dimensioni più preziose, spiega Innocenti, per evitare l’ecoparalisi, che è il peggioramento dell’ecoansia nell’incapacità di reagire e di guardare al proprio futuro.  VDossier ne ha parlato con il giovane scienziato.

Innocenti, com’è nata l’idea del libro?

È iniziata con un viaggio nel Sudest asiatico. Sono arrivato nel Borneo in un periodo  d’incendi, appiccati per bruciare foreste e fare largo all’estrazione mineraria e alla piantumazione di palme da olio. Ho così assistito a quella distruzione di biodiversità che in Indonesia e Malesia sta determinando un aumento delle polveri sottili nell’aria, sempre più irrespirabile. Quel che ho visto ha generato in me una grande preoccupazione, ho iniziato così a studiare il cambiamento climatico e mi sono reso conto che l’argomento mi conferiva anche un particolare stato emotivo. In seguito alle mie ricerche ho capito che si trattava di “ecoansia”, cioè d’un nuovo costrutto. Quando ho iniziato a parlarne in pubblico, la casa editrice Erickson mi ha chiesto di farne un libro.

Lei è medico psichiatra e psicoterapeuta. Ha visto affiorare la dimensione dell’ecoansia nella letteratura scientifica?

Quando ho iniziato a cercare un nome per ciò che stavo provando, c’erano circa cinque articoli in letteratura sul tema. Tra questi, uno di Susan Clayton dell’American Psychological Association (che per il volume di Innocenti ha scritto la prefazione, ndr). Clayton aveva lavorato a una scala sugli stati d’ansia legati del cambiamento climatico, io l’ho riadattata in italiano e ho iniziato a lavorare al tema. Da quel periodo, ho visto il numero d’articoli sull’argomento aumentare. L’ecoansia c’era già, ma non era stato trovato il suo costrutto. Ora che, da due o tre anni, esistono metodi per misurarla, essa è maggiormente visibile. In coincidenza, cresce la consapevolezza da parte dei giovani e l’attenzione dei media sul tema.

L’aumento è anche fra i pazienti che incontra?

Come psichiatra e psicoterapeuta mi occupo di psicopatologia generale e da esperto di ecoansia vedo anche persone che ne soffrono. Ma l’ecoansia è più un’emozione, non una diagnosi. Diventa un problema quando è troppo forte. Come l’ansia, è un’emozione normale ma se è esagerata può determinare dei problemi e alcuni richiedono il mio aiuto.

Lei scrive che l’ecoansia è in qualche modo giustificabile, se si guarda al cambiamento climatico. Dunque non va sedata, ma guidata verso esiti più positivi e di resilienza. Come lei scrive, associazionismo e volontariato pro ambientale sono la strada migliore per farlo.

Associarsi, affiliarsi ad associazioni o unirsi in gruppo assieme a persone con a cuore i nostri stessi valori che ci fanno soffrire, è fondamentale. Non ci fa sentire soli, proviamo meno rabbia anzi aumenta il nostro senso di “auto efficacia”, ciò la percezione che possiamo noi stessi risolvere i problemi che ci preoccupano. È l’ecoansia stessa a spingere chi la prova verso comportamenti pro ambientali, perché quando si ha una preoccupazione, si tende a comportarsi in modo da risolverla. E impegnarsi in comportamenti pro ambientali aumenta il nostro senso di auto efficacia che, come dimostrato scientificamente, riduce i livelli di ecoansia. Così cresce in noi la resilienza e la voglia di fare. Infatti, consiglio subito ai miei pazienti di dedicarsi all’associazionismo. In più è come se avessi una terapia gratis, perché ci si rafforza a vicenda come in un gruppo di auto aiuto. Quando invece si va avanti da soli, il rischio è di crollare, o perché ci si pone obiettivi poco realistici ed esagerati, o perché la solitudine e la mancanza di speranza ci attanagliano. Sicuramente fare gruppo, rete, associazionismo sono le attività principali da intraprendere. Il secondo rimedio è nel riscoprire e ritrovare un contato con la natura, immergersi in essa.

Non crede anche lei che il tema dell’ecologismo coinvolga sempre più giovani, anche nell’impegno attivista?

Non ho dati statistici e demografici a riguardo, se ci sono andrebbe cercati. Sicuramente, noto un aumento. Anche se, essendoci a contatto, vedo che alcuni movimenti hanno avuto un andamento ondulatorio. Da principio sollevavano molta presa e attenzione da parte dell’opinione pubblica, poi col Covid si è fermato un po’ tutto. Ora sono ripartiti, ma con un po’ di difficoltà, negli ultimi Global strike (gli scioperi per il clima, ndr) mi pare che il numero dei partecipanti si sia un pochino ridotto. Il calo trova una giustificazione nei nostri studi. Mi spiego: abbiamo detto che l’ecoansia stimola dei comportamenti pro ambientali e così riduce se stessa. Sul lungo termine questa dinamica funziona se ci sono livelli di autoefficacia elevati, altrimenti qualcosa s’inceppa. Succede quando i giovani non vengono ascoltati da stakeholder, istituzioni, organi d’informazione, quando non viene data voce ai ragazzi e si intraprendono azione di repressione piuttosto che decisioni drastiche per il clima. Penso al grande fallimento delle Cop (Conference of Parties, la riunione annuale dei Paesi che hanno ratificato la convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, ndr), nonostante lo specchietto per le allodole del fondo Loss and Damage (le perdite e i danni subiti in conseguenza dei cambiamenti climatici, ndr). Tutto ciò finisce per buttare giù i ragazzi. Bisogna evitare che ciò accada.

Altrimenti arriva quel senso d’impotenza, che lei definisce “ecoparalisi”.

Sì. Quello è il rischio, e il motivo principale per cui le persone vengono da me. Non tanto per l’ecoansia ma per l’ecoparalisi appunto, quando smettono di fare tutto, perché non credono più a niente. È un grave problema per i ragazzi, significa scomparsa della capacità di vedere oltre l’orizzonte. Se si somma questo agli altri problemi, ai tarli economici, alle guerre e al timore di non trovare un lavoro, si ha meno gioia, meno speranza, meno potenzialità.

D’altronde, come lei scrive, nel mondo sono solo 100 aziende le responsabili del 71 per cento di produzione di anidride carbonica. Di fronte al potere di queste entità, ci si sente impotenti. Lei cosa consiglia per superare l’ecoparalisi, emozione non del tutto irrazionale?

Da psicoterapeuta, cerco di far capire alle persone che ecoansia ed ecoparalisi sono sentimenti e devono essere concepiti come qualcosa di transitorio. Dopo il mio primo viaggio, sono tornato tante volte nel Sudest asiatico dove le associazioni con cui sono in contatto mi hanno mostrato varie realtà, tra Borneo e Indonesia, fatte di devastazione della biodiversità e sfruttamento delle risorse. Ne sono uscito provato e ho sentito un certo grado d’ecoparalisi io stesso. Ma per superarla mi sono aiutato in due modi, da una parte tornando nella natura, a fare trekking ed esplorazioni qui in Italia, nelle Alpi apuane, dall’altra cercando di sdrammatizzare con la compagnia dei miei amici, ricordandomi che ciò che avviene non è di mia o di nostra responsabilità ma dipende da quelle cento aziende che inquinano e da una catena d’errori umani. Si tratta di concentrarsi sul presente, nella vita che è ora, senza proiettare troppe emozioni verso il futuro, capire qual è la mia responsabilità ora, quella degli umani, così da avere un quadro obiettivo di cosa sta accadendo. Me lo hanno insegnato le popolazioni africane che ho conosciuto nei miei viaggi. Colpite da duri traumi e violenze, per loro, nel superare l’angoscia la dimensione del presente è fondamentale.

All’estero, tra Asia e Africa, dove lei ha incontrato attivisti e tribù, è percepibile qualcosa come l’ecoansia? C’è un sentimento ecologista diffuso?

Non vi è consapevolezza sul costrutto dell’ecoansia ma quel che mi hanno trasmesso è ansia e tristezza per ciò che sta accadendo, soprattutto tra attivisti e tribù indigene che vedono il loro territorio devastato. Rispetto alle emozioni ambientali, come le catalogo nel libro, c’è solastagia, (nostalgia per la casa-natura, ndr), così come terrafurie, (rabbia per le istituzioni cieche ai bisogni ambientali, ndr), unite a un senso d’impotenza e rassegnazione perché vedono che in un mondo dove prevale il modello del profitto e del capitalismo non resta che arrendersi e rassegnarsi allo sfruttamento delle risorse se si vuole essere al passo col progresso, avere qualche beneficio economico e sanitario. Per mancanza di scolarizzazione, non hanno una visione globale ma d’altro canto vedono bene i danni attorno a loro, e capiscono meglio di noi le conseguenze di alcune azioni scellerate sugli animali, sull’eco sistema.

Potrebbe dare un parere sull’eco attivismo più provocatorio? Per esempio i blocchi stradali, gli attacchi ai monumenti con vernici lavabili. Il nuovo Decreto sicurezza tende a reprimere tali movimenti.

Non so se quelle azioni siano giuste o sbagliate, questo lo decidono altre figure. Noi scienziati valutiamo gli effetti dei fenomeni in modo empirico, a posteriori. E dunque dobbiamo studiare, secondo i modelli psicologici, cosa funziona meglio per il senso di auto efficacia negli attivisti e per la consapevolezza dell’opinione pubblica. Sarebbe da capire quali siano le azioni efficaci e da implementare e quali invece andrebbero di certo non represse, ma ridotte dagli stessi attivisti perché non efficaci. Loro stessi non sanno quale sia la via migliore, così ne cercano varie. C’è da dire che le azioni di cui lei parla si sono ridotte. Penso che gli stessi attivisti inizino a credere che esse non sollevino gli effetti desiderati ma siano controproducenti perché divisive. Fatte per captare l’attenzione, è come se siano finite per focalizzare l’opinione pubblica più sull’impatto del gesto, sul vandalismo, che sul messaggio. Invece, l’importante è che esse generino senso d’auto efficacia in chi le fa, secondo le dinamiche che ho spiegato, e siano di stimolo alla popolazione attorno per riflettere e agire.

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