Se il futuro promette soltanto scenari minacciosi non resta che chiudersi in un eterno presente e in questa dimensione ristretta provare a ritagliarsi un posto sicuro in cui potersi rifugiare.
Il Centro servizi per il volontariato di Messina in partenariato con la Libera università dell’educare con l’attività denominata “Ri-generazioni civiche”, finanziata dal bando Wave (promosso dalla Fondazione per il Cambiamento e da Action Aid e co-finanziato dall’Unione Europea) ha inteso -anche per questo- avviare il lavoro di ricerca-azione delle esperienze di attivismo civico e di responsabilità sociale realizzate da e con i giovani under 30. Difficile, per le persone incontrate, riuscire a immaginare futuri alternativi, cambiamenti concreti capaci di costruire il mondo che desidererebbero abitare.
Nell’intervista che segue Tiziana Tarsia, sociologa, scout, volontaria in tante attività di ricerca-azione nei quartieri della città di Messina, dà risposte significative.
Il futuro è difficile da immaginare? È capace solo di promettere minacce? Perché, invece, è importante parlarne?
Come sociologa il tema del futuro mi è molto caro. Un approccio sociologico ai problemi (individuali, dei gruppi e delle comunità) può restituire una visione più strutturale e complessa di ciò che accade anche in contesti situati, specifici. Quindi ormai, probabilmente per forma mentis, facendo questo lavoro da tanti anni, quando osservo una situazione o mi viene raccontato un aneddoto durante una intervista, mi si aprono contemporaneamente tante finestre, tanti fili si annodano, e tutto diventa a più dimensioni (mi viene in mente il libro “Flatlandia” di Edwin Abbott Abbott che potrebbe essere utile riprendere sul tema).
Adottare una visione che combina la capacità di analisi e la co-produzione di conoscenza nel considerare ciò che potrebbe accadere e ancora non è, permette di guardare ai futuri che si possono pensare, che non esistono ma che necessariamente hanno le basi in questo presente. Quindi, per rispondere alla domanda, credo che parlare di futuro richieda impegno e intenzionalità e anche tempo e spazi dedicati e condizioni facilitanti. Non credo sia possibile pensare al futuro sempre e in qualsiasi circostanza. Ritengo, però, che sia importante anche allenarsi non solo a “pensare” ma a fare il “futuro”. Nella mia esperienza ragionare con operatori sociali o volontari su cosa e come si potesse agire in una circostanza, su quale soluzione si potesse trovare, ha sempre significato pensare solo dopo aver analizzato e capito.
A quel punto, dopo aver compreso meglio, è sempre stato utile definire qualcosa di fattibile che però mantenesse il germe del desiderabile che fa stare bene. Ciò che può essere utile probabilmente è esercitarsi a immaginare. Negli anni ho appreso sul campo che serve tempo, ma anche circostanze e spazi adatti. Un tempo lento, circostanze favorevoli in cui le persone sentono di poter programmare, progettare, abbiano soddisfatto alcuni bisogni importanti, e infine spazi accoglienti in cui è possibile sentirsi al sicuro.
Come si possono aiutare i giovani ad abilitarsi a compiere questo passaggio dai desideri alle progettualità? Quale potrebbe essere il ruolo del volontariato con i giovani?
Nel passaggio dai desideri alla progettualità credo che il volontariato possa giocare un ruolo fondamentale su due traiettorie che sono entrambe importanti ma anche impegnative e un po’ paludose. La prima riguarda l’esperienza dell’essere volontario in sé e per sé. Il tempo del volontariato, credo possa essere una palestra in cui attrezzarsi per creare futuro con le persone che vengono supportate. È un lavoro delicato che richiede sensibilità, rispetto e riconoscimento profondo per ciò che la persona è in un momento preciso della sua vita; ma anche fiducia per ciò che può diventare.
Quindi il volontariato, per l’esperienza diretta che ne ho, e qui parlo più da scout e da volontaria di lunga data, credo possa veicolare futuro se non sovrappone la persona con il suo problema (le etichette spesso cristallizzano) e se, di conseguenza, crede veramente che quella situazione sia “transitoria”, cioè crede che la persona, i gruppi, le comunità possano evolvere verso qualcos’altro che, non sempre e necessariamente, è determinabile a priori. Che i giovani facciano esperienza del volontariato può far conoscere loro questa dimensione dell’aiuto che si concretizza in un cambiamento e una evoluzione continua e reciproca. È in questo senso che credo possa servire avere un backgroud da volontario per immaginare futuri alternativi.
L’altra traiettoria è quella in cui non mi riferisco al volontariato come esperienza in sé, ma invece penso alle organizzazioni di volontariato che hanno una mission su un territorio. Solitamente si vuole migliorare un contesto, anche qui risolvere problemi. In questi casi può essere molto utile che i volontari e gli operatori sociali si costruiscano una loro cassetta degli attrezzi (abilità e strumenti) che servano a supportare l’immaginazione del futuro delle persone che risiedono e vivono quei luoghi, per progettare, re-immaginare un territorio.
In entrambi i casi c’è un rischio (per questo dicevo all’inizio che consideravo le due traiettorie impegnative e un po’ paludose): quello di sostituirsi agli altri o di sostituire la propria visione con quella degli altri.
Di recente ho letto un libro curato da Radhika Gorur, Paolo Landri e Romuald Normand (Rethinking Sociological Critique in Contemporary Education), in cui nell’intervista realizzata da Paolo Landri a Keri Facer (docente di Educational and Social Futures all’università di Bristol) si sottolineava come oggigiorno ci sia il rischio che l’atto dell’immaginare il futuro possa diventare una competenza specialistica, affidata solo agli esperti. Personalmente credo che il rischio ci sia effettivamente (perché credo servano persone esperte di strumenti e tecniche) ma, allo stesso tempo, così come la Facer sostiene, credo che la capacità di immaginare debba appartenere a tutti. Un vero facilitatore, nella mia esperienza, è quello che sa stare al margine, occupa meno spazio e tempo possibile. È anche una persona generosa che non si nega ma mette a disposizione degli altri ciò che sa, gli strumenti che conosce.
Nell’affrontare questioni e problematiche complesse, il volontariato ha dimostrato di essere in grado talvolta di innovare. Di inventare mondi nuovi, soluzioni innovative che spesso hanno anticipato politiche pubbliche. Quali metodologie e strumenti possono aiutare questo lavoro?
Credo che il volontariato sia stato innovativo lì dove abbia avuto la capacità di conoscere direttamente, di confrontarsi con esperienze estere ed esterne al proprio campo di azione, di sperimentare strade alternative. Un volontariato caratterizzato, quindi, dalla voglia di cercare e ricercare, che vive sulla propria pelle la fatica di aspettare e che si dà il tempo di approfondire con gli altri (i servizi, le università, i singoli individui).
In un volume che abbiamo presentato a Napoli di recente con altri colleghi, si sottolineava come la ricerca sociale potesse servire anche a co-costruire futuro attraverso la creazione di spazi di dialogo che concretizzino processi di cambiamento, generativi appunto, in cui si può lavorare per mettere in atto le condizioni utili a far affiorare le potenzialità delle persone, delle comunità, delle città. Un libro molto interessante e che riguarda proprio le persone più giovani è quello scritto qualche anno fa da Vincenza Pellegrino e intitolato, non a caso, “Futuri testardi. La ricerca sociale per l’elaborazione del dopo-sviluppo”. Qui l’autrice usa proprio i Future-lab come metodo di ricerca ed è grazie a lei e al gruppo di “Mappa Celeste- forum per il futuro” (con Ivana Pais e Tommaso Vitale fra gli altri) che, anche io, mi sono appassionata a questi strumenti e ho deciso di andare alla fonte e leggere il breve ma utilissimo librino scritto dai due ideatori del metodo (Robert Jungk e Norbert Mullert, Future Workshops: How to Create Desirable Futures, 1987).
È una lettura che consiglio perché non spiega solo come si fanno i future workshop ma viene proposta una postura, un modo di stare con le persone mentre si immagina il futuro. Gli strumenti e le tecniche per lavorare sul futuro sono tanti e diversi. Nella mia esperienza, ripensandoci per questa intervista, ho sempre scelto di usare quelli che rimandano a due dimensioni che secondo me sono necessarie nei percorsi in cui si ragiona di futuro: il conflitto e la partecipazione. Una buona capacità di esplorare i conflitti latenti o espliciti che, di volta in volta, emergono nelle comunità o nella vita nei gruppi o dei singoli credo stia alla base della reale possibilità di immaginare i diversi futuri “possibili”.
Probabilmente si può anche dire che l’esplorazione dei conflitti, in qualche modo, possa creare i presupposti per generare innovazione, trasformazione. Quando con le persone si riesce a individuare, analizzare e comprendere ciò che non ci piace, che non genera benessere, che ci opprime probabilmente si sta già facendo un passo verso una nuova progettazione, verso il cambiamento. A questo punto del discorso è facile intuire perché oltre al conflitto ho nominano la partecipazione.
Nella mia esperienza di sociologa l’uso di strumenti partecipativi e creativi ha permesso di ragionare con gli operatori e a partire dagli operatori e questo credo sia ciò che debba stare alla base dei processi di immaginazione del futuro.
Inoltre, pensare al futuro collegandolo a queste due dimensioni permette di avere sempre presente la fatica che si porta con sé l’idea di futuro. Non è un caso, ad esempio, che nei future-lab si passi dalla fase di crisi (quella della “litania” direbbe Sohail Inayatullah, un futurista contemporaneo), che spesso è la più facile da descrivere, a quella della creatività (anche detta utopica) per poi però soffermarsi maggiormente su quella detta della “transizione”. In questa fase l’attenzione è su ciò che esiste, che conosciamo (a volte solo poco) e che potrebbe potenzialmente diventare futuro. A questa fase si dedica più tempo delle altre perché si chiede alle persone di individuare degli elementi solidi in qualcosa che esiste, e solo a questo punto si chiede loro di costruire, di progettare di ragionare su idee sostenibili, concretizzabili. Se nelle prime due fasi si rimane su un livello di astrazione abbastanza alto, nell’ultima fase si ritorna ai territori, alla possibilità di concretizzare un futuro “desiderabile e possibile”.
TIZIANA TARSIA è professoressa associata in Sociologia generale al dipartimento Cospecs dell’università di Messina. Attualmente insegna Metodologia e tecniche della ricerca sociale, Ricerca sociale in contesti formativi e socio-educativi e Strumenti e metodi della ricerca sociale. Coordina gruppi di ricerca partecipativa e collaborativa nell’ambito dei servizi e del lavoro sociale. I suoi interessi di ricerca riguardano la coproduzione delle conoscenze incorporate nelle pratiche professionali e nei servizi territoriali, la sperimentazione di metodi di ricerca sociale collaborativa e creativa, la sociologia dei conflitti, la formazione degli operatori e le pratiche sociali esperite negli spazi dell’accoglienza delle persone migranti e in situazioni di povertà e fragilità.