“Per comprendere la relazione tra volontariato democrazia occorre partire dalla relazione tra volontariato e Stato democratico. Ovvero tra Stato e forme di cittadinanza che non sono solo politiche, ma anche sociali e di attivismo”. Nadia Urbinati è docente di Teoria politica alla Columbia University. Da sempre si occupa di democrazia e cittadinanza.
Urbinati, è possibile definire il rapporto che c’è tra democrazia e volontariato, laddove per volontariato intendiamo formule, spesso nemmeno normate, di attività gratuita di solidarietà verso gli altri?
La democrazia si impone fin dalle origini antiche come un sistema politico fondato sulla volontarietà. Cioè coloro che lo vogliono, partecipano. Coloro che lo vogliono, si presentano volontariamente come candidati (nelle selezioni per sorteggio o per elezione). La forma di selezione per sorteggio (che nell’antica Grecia sopperiva all’assenza di una burocrazia e di uno Stato come lo conosciamo oggi) serviva a impedire che il potere non diventasse un previlegio dell’élite o di una parte. La scelta volontaria era infine segno di individuale responsabilità nella scelta politica.
È il principio della decisione volontaria del soggetto. Anche il tentativo di “trascinare” fuori dall’ambito privato il cittadino è democrazia. I cittadini non nascono tali. Sono sempre in fieri e oggetti (e soggetti) di “educazione”: tendenzialmente l’individuo quando è libero pensa prima di tutto al proprio interesse. Solone, nell’antica Grecia, aveva istituito una norma per cui nelle situazioni di grande tensione tutti dovevano andare in assemblea e schierarsi. Questo non costituiva un “obbligo” in senso stretto, ma un invito pressante a prendere parte; che comunque restava una scelta volonaria, non un’imposizione che prevedeva coercizione.
Quale che sia la forma di partecipazione, l’elemento fondamentale rimane la volontarietà. Il politologo statunitense Robert A. Dahl scriveva negli anni Sessanta, che la democrazia è basata sul “criterio della scelta personale”. La scelta di partecipare e la scelta anche delle forme di partecipazione, quando possibile. Significa che l’impianto stesso della sovranità democratica è basata sui singoli cittadini e sulla loro responsabilità. Quest’ultima non è statuita come nel caso di chi, tra i cittadini, è selezionato (per selezione o concorso) a svolgere funzioni pubbliche. Una responsabilità puramente etica ovvero dipendente dal nostro senso di dovere, perché il nostro voto – l’agire fondamentale della cittadinanza – è libero da ogni responsabilità legale. Il sovrano (noi, in questo caso) non dobbiamo renderne conto a nessuno per come votiamo.
Quindi il potere sovrano è un potere fuori dalla responsabilità. Questo potere è fondato sulla volontarietà della decisione, dell’intervenire, del partecipare. Ovviamente i nostri diritti non vengono meno se non partecipiamo. Però a quei diritti bisogna dare gambe, che vengono date dalla nostra volontà. Se non c’è volontà di partecipare il diritto resta nostro ma noi non lo pratichiamo (la sovranità ci “appartiene”, per parafrasare l’articolo 1 della Costituzione).
Ecco in che cosa la modernità si distingue dall’antichità: gli antichi non avevano lo Stato, una costruzione dei moderni, che ha una sua logica di impersonalità e funzionalità ed è un’ordine istituzionale che definisce relazioni di potere e una verticalità, e che deve operare secondo procedure non il capriccio di chi lo gestisce; uno Stato fatto di norme che sono obbligatorie in senso legale (coercitivo e sanzionatorio) non morale. La legge è obbligatoria e non possiamo accampare l’ignoranza nè il privilegio di relazioni di parentela o di classe.
Questa obbligatorietà non è legata alla nostra volontarietà, e nemmeno alla nostra conoscenza. Quindi c’è una dimensione di potere nello Stato moderno che sta fuori della nostra volontà (“La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”). Su questo Stato, i moderni hanno impiantanto la democrazia che, quindi, non è tutta basata sulla presenza volontaria dei cittadini benché riceva legittimità dalla volontà politica loro, espressa nelle elezioni.
Qual è il legame della democrazia con la società civile?
Ho sempre definito la democrazia come un sistema diarchico, ovvero con due autorità: l’autorità dell’opinione pubblica e in senso lato della società civile, e l’autorità della volontà espressa nel voto, ovvero la rappresentanza e le istituzioni. Queste due autorità sono diverse, perché quella interna allo Stato è la legittimità formale della quale parla appunto l’articolo 1. L’altra è un’autorità che viene da fuori, da quella dimensione articolata e ricchissima di idee e interessi che è fatta di tantissime opinioni che tendono a convergere verso una idea di bene generale. Noi ci organizziamo in diverse associazioni per soddisfare alcuni bisogni, per tutelare o avanzare interessi, per rivendicare esigenze, per accampare pretese, per lamentare ingiustizie e per protestare. Noi interveniamo, guidati dalla nostra volontà individuale. Che, lo ripeto, è alla base dei sistemi democratici e non di quelli totalitari. Montesquieu diceva che i Paesi liberi – con “governi moderati” – sono quelli nei quali la libertà si vive nella “tranquillità dello spirito”: ovvero, devo sapere che se agisco in un determinato modo, se parlo e dico delle cose in pubblico, non subisco repressioni o violenze. Altrimenti la mia libertà è veramente poca cosa.
Tutte le attività che come cittadini svolgiamo al di fuori della cabina elettorale e in pubblico sono basate su questo.
Praticando il volontariato e la volontarietà si alimenta la democrazia, la si mantiene in salute?
Pensiamo al tema dell’obbligatorietà di esercitare il voto. Molti Paesi, per esempio l’Australia ma anche l’Argentina e altri Stati dell’America Latina, hanno un’obbligatorietà forte o stricto sensu, l’idea è che si debba andare a votare anche perché questo dà stabilità; l’obbligatorietà ha il compito di impedire che la volontarietà produca, alla fine, quello che la democrazia non vuole essere, cioè il governo delle minoranze. È una strategia di auto-difesa.
Le nostre democrazie contemporanee, quelle europee, che non impongono obbligatorietà del voto, hanno un evidente problema: metà della cittadinanza non si presenta alle urne.
Non mi interessano qui le ragioni di questa secessione dal voto – che sono le più diverse e comunque non si può entrare nella testa dei singoli. Ma possiamo, per osservazione, dire che la secessione cosí ampia dal voto riguarda i cittadini socialmente soli, o deboli o non organizzati; al contrario al voto tendono a partecipare quei cittadini i cui interessi sono ben organizzati e hanno voce e potere di attenzione. Il non voto tende a venire da quella parte debole della società civile, con un livello di associazionismo basso o poco potente. Io parlo di “corpi intermedi sociali deboli” e che danno ai cittadini piú poveri o vulnerabili l’impressione che il loro voto non conta, non ha potere.
Laddove la società civile è più organizzata e dove gli individui non sono solo individui, ma sono associati si sente la forza del diritto di voto.
C’è dunque correlazione tra mancata partecipazione e tendenza a praticare forme di volontariato informale?
I modi di fare il volontariato sono vari. Nelle democrazie moderne, con l’elezione abbiamo bisogno di intermediazioni politiche e sociali – le elezioni introducono infatti una distanza tra noi e il potere istituito. Come riempire questa distanza senza eliminarla? Non attraverso corporazioni alla maniera fascista, certamente, ma con individui che si associano rispetto a una proposta e alla sua piú o meno creduta o percepita coerenza con i proprio interessi e le proprie idee. Dobbiamo tenere fede a questa visione di rappresentanza democratica, che è diarchica: voto e opinione, laddove il voto è un atto singolo e irresponsabile e l’opinione è esito di associazioni con gli altri e responsabile, moralmente e civilmente.
È chiaro, i tempi variano. Nell’Ottocento la lotta per il suffragio universale non la cominciarono i partiti, ma la società civile organizzata, le cooperative, le società di mutuo soccorso, le unioni sindacali, di lavoratori, di mezzadri e di contadini, di donne. Nel nostro tempo – con anche l’intervento della rivoluzione informatica – la stessa partecipazione cambia. È necessario che sia sempre legata a interessi? Diceva Tocqueville che le associazioni più forti sono quelle che devono risolvere problemi concreti, e quindi si sciolgono quando hanno risolto quei problemi (le associazioni sono temporanee). Noi vogliamo evitare che taglino gli alberi nel viale del centro? Ci organizziamo, impediamo, blocchiamo, e a volte otteniamo. Un obiettivo specifico ci unisce, perché da soli siamo impotenti. Quindi la società civile intermediata è utile. Non solo perché stimola a partecipare e alla fine a votare, ma anche perché controlla il potere dell’influenza che in genere hanno piú intenso coloro che fanno politica per mestiere (un tempo i “notabili” cetuali, oggi i “notabili” di partito).
È chiaro che in tutto questo c’è del rischio. Nella società civile, alcuni partecipano più, altri meno, e questo dipende da che cosa i cittadini devono proteggere, quali interessi devono difendere. Diceva Tocqueville che la caratteristica delle democrazie elettorali è quella di usare al meglio l’egoismo (“egoismo bene inteso”).
Il volontariato ha sempre giocato un ruolo importante nelle elezioni statunitensi.
La volontarietà è l’anima più forte della democrazia americana. Che nasce in un Paese geograficamente enorme, da cittadini con un senso profondissimo del loro orgoglio individuale di responsabilità, anche per sopperire a quello che in Europa proveniva dalle caste e dal clero, poteri sedimentati e non associati alla volontarietà. Questa è l’anima della democrazia perché educa i cittadini a sentirsi parte autorevole – o semplicemente di essere soggetti autorevoli. Gli statunitensi sono così convinti della forza delle loro associazioni che le mobilitano sempre e le usano con gli elettori e con i candidati. Sono potenti, e danno il senso del potere. Non sono poteri di qualcuno, per cui hanno una forte funzione educativa e civica.
E poi ci sono i governi locali. Per esempio il New England è un ottimo esempio di una grande repubblica che ha conservato alcune caratteristiche del governo locale: nei villaggi e nelle piccole città, ci sono ancora le le assemblee dirette dei cittadini. Non ci sono i rappresentanti eletti a operare. È un fatto di governo locale e in alcune funzioni ancora autogestito, fondamentale soprattutto oggi, con i partiti che hanno perso la loro funzione organizzativa anche là, non solo in Europa.
È vero che ideologicamente la società americana è polarizzata. Ma questa polarizzazione è legata più alle caratteristiche dei candidati e degli aspiranti leader che non alla realtà. La società non sarebbe tanto polarizzata. È per rispondere alle esigenze della crisi dei partiti che questi hanno costruito e consolidato una narrazione identitataria e opposizionale. Il dominio della narrativa identitaria (di etnie, razze, generi, religioni) è anche il segno della crisi dei partiti organizzati.
NADIA URBINATI è docente di Teoria politica alla Columbia University a New York e collabora al quotidiano “Domani”. È stata membro dell’Institute for Advanced Study e dell’University Center for Human Values, entrambi a Princeton. Dal 2016 al 2017 è stata presidente di Libertà e Giustizia; è stata vice-presidente sotto la successiva presidenza di Tomaso Montanari. Tra i suoi libri: Io, il popolo. Come il populismo trasforma la democrazia (il Mulino, 2020), Pochi contro molti. Il conflitto politico nel XXI secolo (Laterza, 2020) e L’ipocrisia virtuosa (il Mulino, 2023). Il suo ultimo volume è Democrazia afascista (Feltrinelli 2024, con Gabriele Pedullà).