SERGIO CONTI NIBALI è medico e direttore della rivista “Uppa magazine”. È stato componente del Comitato nazionale multisettoriale per l’allattamento del ministero della Salute, è responsabile del gruppo nutrizione dell’Associazione Culturale Pediatri (ACP) e socio fondatore dei “No Grazie” che promuovono scelte consapevoli in ambito sanitario. Collabora alla stesura del Rapporto sull’attuazione della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia. È autore di oltre duecento pubblicazioni su riviste scientifiche nazionali e internazionali.
Si può educare al civismo e se sì da quale età? Abbiamo posto questa di certo non semplice domanda a Sergio Conti Nibali
che, oltre a essere stimato pediatra con all’attivo oltre duecento pubblicazioni su riviste scientifiche nazionali e internazionali, è anche direttore di Uppa magazine, rivista indipendente scritta da pediatri, pedagogisti, psicologi e altri specialisti del settore e che conta circa 29.000 famiglie abbonate. “I bambini – racconta Conti Nibali – imparano osservando i comportamenti degli adulti che si occupano di loro: è un’attitudine innata che si allena sin dalle prime epoche della vita.
Un neonato posto a contatto pelle a pelle sul corpo reclinato della mamma e lasciato libero di attivare i suoi riflessi primali, striscia alla ricerca della prima poppata e alza la testolina nel tentativo di incrociare il volto e lo sguardo della sua mamma. Sin dalle prime settimane tenta di imitare le espressioni del volto dell’adulto di riferimento e entro i 2 anni di età è capace di comprendere gli stati d’animo delle persone che gli stanno vicini, tanto da potere affermare che sviluppano già a quell’età delle competenze empatiche. Ovviamente tutte queste abilità e competenze vanno “allenate” e vengono sostenute dai
comportamenti dei genitori dai quali i bambini apprendono. In base a queste considerazioni i bambini vanno educati
(anche) al civismo sin da piccoli”.
Nei primi anni di età, dove il bimbo edifica la propria identità, esiste un egoismo sano e che potrebbe essere “cemento” per la costruzione di un senso civico? Come individuarlo, curarlo e non reprimerlo?
“È vero che i bambini, nel corso del loro neurosviluppo, attraversano periodi nei quali è più spiccata la ricerca del piacere personale, la voglia di “comandare” e di opporsi alle regole che permettono di stare bene insieme; tuttavia, al contempo, dalle precedenti considerazioni emerge come ci sia molto altro nel repertorio delle competenze dei bambini che può essere allenato e, nel tempo, coltivato. I bambini vanno accompagnati, nel loro percorso di crescita, da adulti che devono avere la consapevolezza che i comportamenti “fuori dalle regole” possono fare parte del normale neurosviluppo dei bambini, che non devono essere repressi, ma accolti e compresi. Dalla relazione con i loro adulti di riferimento (genitori, tate, insegnanti, nonni…) i bambini pian piano svilupperanno quelle competenze, anche quelle sociali, che permetteranno loro di sviluppare un senso civico; ammesso che questo faccia parte della cultura dell’ambiente educante”.
Ma allora, alla fine dei conti, servono più i no o i sì per educare al civismo un bambino? Pesano di più i doveri o i diritti in questo percorso iniziale così delicato?
“Se rispondessi che servono più i “no” e che pesano più i “doveri” cadrei in palese contraddizione con quanto ho finora detto. È vero che i “no” sono importanti e utili nello sviluppo dei bambini, che devono sin da piccoli capire che ci sono dei limiti al di là dei quali è bene non andare; ma se i genitori si accorgono che la giornata è troppo piena di “no” allora è il momento di fermarsi e di chiedersi se non stanno creando al bambino troppi vincoli. Se, ad esempio, nel momento in cui pensiamo di arredare la casa non ragioniamo sulle necessità di movimento e sul desiderio di esplorazione dei bambini potremmo correre il rischio di creare un ambiente che rende impossibile la loro vita normale e i “no” sarebbero estenuanti e molto stressanti per tutti, adulti e bambini. I genitori dovrebbero creare le condizioni perché i “sì” siano molto superiori ai “no”. I bambini hanno
un bisogno innato di far da soli, di fare in autonomia le stesse cose che fanno mamma e papà; vanno accompagnati in questo percorso intervenendo solo nel caso in cui il loro agire possa creare un danno a loro o all’ambiente.
Lo stesso discorso vale per i “doveri”, che i bambini impareranno a agire solo se avranno avuto esperienza di un ambiente che ha prestato attenzione ai loro diritti, fin da quando sono nati; se si saranno sentiti amati e rispettati, allora svilupperanno la capacità di capire quali sono i doveri che, per la cultura che hanno attorno, sono importanti”.
Parlando di volontariato, come può essere proposto già in tenera età tra le mura domestiche? Esistono piccole attività per “allenarsi” insieme e quali invece lasciare che sperimentino solo loro?
“Come accennavo, i bambini vorrebbero “fare”; che sia spostare sedie, spolverare, lavare la frutta, versare l’acqua da un recipiente a un altro, prendere i vestiti dai cassetti e buttarli per terra, mettere e togliere le scarpe…. Se vengono accompagnati e indirizzati durante il loro percorso a fare “bene”, pian piano impareranno a mettere in pratica quello che i
genitori vogliono che venga fatto. Mi capita in ambulatorio di chiedere a un bambino dell’età scolare di togliersi le scarpe e, a volte, vedo che alla mia richiesta il bambino guarda uno dei genitori che accorre e gli toglie le scarpe; altre volte, alla stessa richiesta, un bambino di 2 o 3 anni fa da solo e i genitori restano fermi a osservarlo. È molto probabile che al primo bambino, a differenza del secondo, non saranno affidati dei compiti per “aiutare” a casa per le semplici cose che un bambino può fare se viene “allenato”: apparecchiare, sparecchiare, riordinare il gioco dopo averlo utilizzato, mettere le scarpe al posto giusto,
prendere i vestiti dai cassetti per vestirsi e riporli dopo che li ha usati, e così via. Man mano che cresceranno, se avranno acquisito questi comportamenti fin da piccoli, saranno sempre più bravi a “far da soli”.
E in questa frangente come si colloca il ruolo del genitore? Deve essere un inflessibile organizzatore? Un maestro
paziente o compagno di volontariato alla pari?
“Il genitore ha un ruolo essenziale nello sviluppo dei bambini, e i bambini hanno la necessità di trovare in lui un adulto che li accompagna con affetto, competenza e autorevolezza nel loro percorso. “Autorevolezza” è molto lontano dal concetto di “autorità”: il bambino non va abituato a fare una cosa perché “altrimenti papà si arrabbia”, ma perché ha capito che se non si fa in quel modo può non andar bene (si può rompere… Ti puoi far male… Puoi disturbare chi ti sta accanto…). Da qui deriva anche il concetto che ci saranno alcune cose che ancora lui non riesce a fare (“ci vuole troppa forza per svitare
questo bullone, fra qualche anno ci potrai riuscire… facciamo insieme…”) e le faranno papà e mamma; altre che potrà fare da solo e altre ancora solo se ci sarà qualcuno che le fa con lui.
Senza gerarchie, ma in base alle capacità che i genitori riconoscono nel loro bambino”.
Stiamo tutti faticosamente tentando di lasciarci alle spalle la Pandemia. Come si può aiutare il bambino a ricostruire la “fiducia” con la Comunità dopo così tanti mesi distanziati, timorosi e protetti da mascherine?
“I bambini hanno grandi capacità di adattamento e, al contempo, di resilienza. L’uso (a volte eccessivo e inappropriato) delle mascherine e il distanziamento fisico ha certamente procurato un ostacolo alle potenzialità di sviluppo dei bambini, specialmente di quelli che avevano già alla base dei fattori di rischio; tuttavia le informazioni che ricaviamo dalle storie di
bambini che hanno subito eventi traumatici anche di lungo periodo ci confortano e indicano che hanno le capacità di recuperare, se posti nelle condizioni ottimali. La speranza e l’auspicio è, dunque, che nei prossimi mesi la salute mentale
dei bambini venga considerata prioritaria rispetto a qualsiasi altro aspetto della nostra vita sociale”.
Oltre la Pandemia, un tema caldo è quello legato alla cosiddetta questione di genere. Quali sono gli eventuali pericoli nel dividere forzatamente, in tenerissima età, le strade educative in vista di creare cittadine e cittadini responsabili? E se/quanto invece puntare su percorsi educativi separati maschio/femmina per far sì che, soprattutto per i maschi, si possa iniziare a riflettere sul rispetto e la non violenza nella comunità di appartenenza?
“Proprio oggi mi sono recato in una libreria per acquistare un libro da regalare a un bambino di 3 anni; il commesso del negozio mi ha chiesto “maschio o femmina”? È solo uno dei tantissimi esempi di come, sin dall’infanzia, la nostra società ha stereotipi duri a morire. Non esistono libri per bambini e libri per bambine, così come non c’è differenza per giochi, attitudini, sport e, per spingerci più avanti, lavori fuori e dentro casa. La parità di genere non si dovrebbe “insegnare”, ma “praticare”, senza alcuna discriminazione. Il rispetto si insegna lavorando tutti insieme, sullo stesso piano: è una logica che è indipendente dal sesso.”
Fino a questo punto abbiamo parlato soprattutto delle bambine e dei bambini che muovono i primissimi passi sulla via dell’attivismo civico. Invece come i genitori possono spiegare al proprio figlio o figlia il atto che si dedichi tempo (spesso tanto) ad altre persone, senza creare traumi?
“I bambini non sono molto interessati alla quantità di tempo che un adulto trascorre con loro, quanto – piuttosto – alla sua qualità; se, dunque, togliamo tempo ai nostri bambini, ma poi siamo con loro in tutti i sensi quando torniamo non credo che si creeranno gelosie. Anzi, il racconto di come è stato impiegato il tempo fuori di casa può rappresentare una storia
accattivante per i più piccoli e, perché no, da riprodurre. E quando saranno più grandi, in base all’attività che i genitori svolgono, potrebbe essere una bella esperienza per un bambino andare a far volontariato con mamma o papà.”
E quindi, per concludere, quando (in sicurezza) portare il proprio figlio o figlia a vedere in prima persona l’operato del papà o della mamma “sul campo”? Al netto delle delicate fasi di crescita, del loro “assimilare e ripetere”, quanto è importante che ci emulino nella scelta del volontariato e quanto invece spingere perché i figli seguano una strada propria anche nel volontariato?
“Man mano che i bambini crescono e si avviano verso l’adolescenza è normale che spostino l’attenzione verso quello che succede fuori casa: cominciano a dare molto più valore al “gruppo” di riferimento (quello della scuola, dell’oratorio, della palestra…) e, per alcuni, potrebbe risultare imbarazzante perfino farsi vedere per strada con i genitori. Occorre, dunque, essere prudenti nel proporre esperienze di questo tipo e non è possibile generalizzare. Un consiglio, però, mi sento di dare: come per tutte le scelte che i ragazzi faranno nella loro vita è importante che vengano sostenuti e accompagnati dai loro
genitori che devono preoccuparsi della realizzazione dei progetti di vita dei loro figli e non dovrebbero, al contrario, subire
condizionamenti per “accontentare” le aspettative di mamma e papà”.
Un estratto di questo articolo è stato protagonista di una “lecture” al festival milanese BookCity Milano, grazie alla voce di Tommaso Amadio, attore, regista, co-direttore artistico Teatro Dei Filodrammatici.