I dialetti del Mezzogiorno custodiscono con gelosia la vocale indistinta. Sarà il retaggio francese dei Borboni, sarà una geografica tendenza all’apertura e al co smopolitismo, fatto sta che ai bambini delle elementari, da Civitella del Tronto in giù, capita spesso di sentirsi dire: “pronuncia bene la parola fino alla fine!”. Per chi dalla culla è abituato a sentire “Quanto sei bell, brav, intelligent…”, declinabile anche per casi meno lodevoli, come “Quanto sei cattiv!” o “Sei proprio dispettos!” le recenti discussioni sullo “schwa” e l’asterisco lasciano un po’ di sorpresa, come a dire “ma perché, qual è il problem?”.
Lo shwa è il suono neutro che corrisponde al segno grafico “ə” e che nel 2021 è stato spesso al centro del dibattito come desinenza alternativa possibile per annullare il genere, quindi più inclusiva. Stesso discorso vale per l’asterisco “*”, per cui è facile trovare testi scritti, in particolare nel linguaggio informale dei social, dove leggere formule come “car* tutt* o “carə tuttə”. Si tratta di proposte, linguistiche e grafiche, per uscire dall’unica via attuale rappresentata dal maschile universale, che vuole che si usi la desinenza maschile nei casi in cui ci si riferisca a gruppi di persone tra cui almeno un maschio. Un ulteriore esempio lo si trova nella campagna di promozione del volontariato “Cercasi Umani” promossa nella primavera 2021 dal Centro Servizi per il Volontariato di Verona, dove la desinenza degli aggettivi era rappresentata da una “a” e una “o” sovrapposte:
Le querelle sullo schwa, sull’asterisco e affini rappresentano una riflessione di dettaglio che si colloca nel quadro più ampio della capacità del linguaggio di incidere sulla realtà e di riprodurla in maniera fedele, se non di plasmarla. L’Accademia della Crusca, il 21 settembre 2021, per mano del professor Paolo D’Achille ha rilasciato la consulenza “Un asterisco sul genere” che risponde ai numerosi quesiti pervenuti alla Crusca su temi legati all’uso dell’asterisco, dello schwa o di altri segni che “opacizzano” le desinenze maschili e femminili, alle eventuali possibilità per l’italiano di ricorrere a pronomi diversi da lui/lei o di “recuperare” il neutro per riferirsi a persone che si definiscono non binarie, quindi che non si percepiscono nei generi maschili e femminili e altre questioni connesse, in particolare, a questo ambito. L’Accademia, che della lingua italiana il miglior fior ne coglie, stando al suo motto petrarchesco, sostiene che non si possano usare soluzioni diverse perché “l’italiano ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile […] Dobbiamo serenamente prenderne atto, consci del fatto che sesso biologico e identità di genere sono cose diverse dal genere grammaticale”.
Prosegue scrivendo: “non dobbiamo cercare o pretendere di forzare la lingua – almeno nei suoi usi istituzionali, quelli propri dello standard che si insegna e si apprende a scuola – al servizio di un’ideologia, per quanto buona questa ci possa pparire”.
Tuttavia il parere non chiude quella che rimane una questione aperta, cioè se il linguaggio sia capace di plasmare la realtà. Stefano Bartezzaghi, scrittore e docente di semiotica all’Università IULM di Milano, non la pensa così: “È una materia difficile da sbrigare in una risposta. Dirò che la lingua è certamente connessa con il modo che ognuno di noi ha di considerare la realtà, ma non è che cambiando le parole si cambia la realtà e neppure il nostro modo di considerarla. Lo dimostra la storia degli eufemismi”. Quando termini come lupanare o bordello divennero parole imbarazzanti, le case di tolleranza furono chiamate con un eufemismo che all’epoca parve grazioso e garbato: casino. Appena se ne diffuse l’uso, divenne esso stesso un termine di turpiloquio. E non è certo una forma peggiorativa: anzi, è un diminutivo con valore vezzeggiativo”.
Vera Gheno, socio-linguista e saggista, impegnata sul fronte del linguaggio inclusivo, è del parere che se la norma linguistica si rifiuta di accogliere i segnali di cambiamento, come è accaduto nel caso della consulenza della Crusca, questo in effetti può frenare i processi di evoluzione ma “se le cose devono accadere, poi accadono lo stesso. Non mi stupisce che le odifiche non entrino da un momento all’altro perché richiedono un cambiamento di mentalità che tira via i tappetini da sotto i piedi a sistemi consolidati da millenni. Forse un parere diverso avrebbe aiutato, nel caso specifico, nel percorso del linguaggio inclusivo e del linguaggio di genere. In altri Paesi, come la Svizzera, il dibattito è più maturo e ci si sta chiedendo non se adeguare la lingua, ma come farlo”.
Tuttavia la realtà cambia e a seguire lo farà la lingua, sono movimenti lenti ma non si torna indietro e bisogna solo pazientare affinché la lingua cristallizzi nelle parole la situazione reale. D’altronde, anche in Paesi dove, a differenza dell’Italia, le accademie linguistiche hanno un potere normativo, come accade in Francia, ad esempio, le resistenze cattedratiche sono state aggirate dall’uso corrente. Certo la riflessione linguistica non è sufficiente, da sola, a cambiare la realtà. Basti pensare a Paesi come l’Ungheria o la Cina che hanno sistemi linguistici non-gendered, quindi senza una distinzione sulla base del genere, tuttavia sono realtà sociali con forti problemi di inclusione. “Quello che serve per innescare un effettivo cambiamento è la risonanza tra lingua e società” afferma Vera Gheno.
La tendenza diffusa nei parlanti, infatti, è quella di volere raccontare una nuova realtà con termini adeguati, anche se si registrano resistenze e scetticismi che sono soliti accompagnare i cambiamenti. “Ora stanno emergendo temi nuovi – come il non-binarismo di genere – che comportano rivoluzioni mentali grosse e che sono in corso adesso, per cui è normale che la società non sia pronta a questo passaggio e che la lingua non abbia ancora dato delle risposte, però è certo che ogni sistema linguistico darà le sue risposte a queste sollecitazioni – spiega Vera Gheno – “Dire, come fa l’Accademia della Crusca, che in italiano non ci sono soluzioni attuabili per una lingua più inclusiva è vero, ma questo non va oltre il compito del linguista che si ferma a osservare la realtà. Piuttosto l’approccio deve essere quello di capire quali possono essere possibili soluzioni”.
La lingua, secondo questo approccio, deve prefigurare futuri scenari ed essere capace di raccontarli: “Se in un ipotetico domani il 75% delle persone si dichiarasse fluida, la lingua dovrebbe per forza fare qualcosa”, afferma Vera Gheno. Allora la resistenza è una questione di numeri? In effetti, in altre esposizioni dell’Accademia, per esempio nel caso della risposta che riteneva ammissibile nel vocabolario il termine “petaloso”, si menziona il discorso numerico: “Una parola nuova non entra nel vocabolario quando qualcuno la inventa, anche se è una parola ‘bella’ e utile. Perché entri in un vocabolario, infatti, bisogna che la parola nuova non sia conosciuta e usata solo da chi l’ha inventata, ma che la usino tante persone e che tante persone la capiscano”.
Al momento lo schwa, l’asterisco sono segnali di un cambiamento e un tentativo di dare una risposta, proposte che la lingua sta facendo sue, come accade altrove con la @ o con l’aggiunta di nuove desinenze, ad esempio nello spagnolo dove al “tutti e tutte” di “todos y todas” si sta aggiungendo “todes”. In Italia, però, le resistenze sem brano essere più forti rispetto ad altri Paesi europei, secondo Marina Turchetti, presidente dell’associazione di Ancona “Reti culturali” che da anni si interessa delle questioni di genere e del ruolo del linguaggio in questo ambito, soprattutto per quanto riguarda le modifiche linguistiche tese a instaurare la parità tra i generi. Al momento ci sono solo domande di ricerca aperte, ma di certo la tendenza al cambiamento in atto non è una moda. Stanno emergendo situazioni, realtà, forme dell’essere nuove che non hanno – ancora – le parole per rappresentarle. In questa tensione socio-linguistica, il volontariato può giocare un ruolo cruciale e determinante rispetto alle future evoluzioni e le attività delle associazioni possono incidere nella società in modo profondo.
Per Turchetti è fondamentale il dialogo con i più giovani, sensibilizzare e creare un’attenzione alle parole che si utilizzano, andando a smontare, tessera per tessera, il mosaico delle violenze che si verificano nella società e che hanno una radice profonda nella cultura nella quale si cresce, di cui il linguaggio è la rappresentazione. La violenza praticata, contro le donne, contro le diversità e contro le fragilità in genere, ha il suo humus in un lessico che ha indirizzato in qualche modo il pensiero e questo vocabolario si nutre anche di stereotipi accettati dalla società, nella loro innocua forma linguistica, senza considerare che sono questi stessi ad avere poi ripercussioni violente. A volte le questioni linguistiche vengono derubricate a qualcosa di poco importante, quando poi “le cose più importanti” sono proprio le vulnerabilità sociali che un linguaggio scorretto contribuisce a creare.
“Le piccole associazioni – precisa Turchetti – possono lavorare sulla sensibilizzazione, sul corretto uso del linguaggio per arginare alla fonte alcuni dei campanelli di allarme che in genere si ascoltano quando ormai il pericolo è esploso. Cercare di costruire una cultura del rispetto che eroda e sgretoli la cultura della violenza che si basa anche sul linguaggio iscriminatorio
e stereotipo”. Il volontariato può contribuire al cambiamento graduale che sarà lento, ma deve pur cominciare e proseguire con il giusto indirizzo. C’è poi anche il linguaggio che il volontariato usa per raccontare se stesso, al quale, forse, non presta molta attenzione e che invece potrebbe aiutarlo ad essere più incisivo.
“Mi pare che il modo di proporsi debba evitare di partire e rimanere nella zona etica dei valori e rivolgersi più direttamente alla sfera pragmatica: la possibilità di fare cose concrete – afferma Stefano Bartezzaghi – a seconda delle circostanze in cui ci esprimiamo possiamo scegliere di volta in volta i termini piùadeguati, più efficaci. Chi parla con più consapevolezza è più credibile e anche, per me, più onesto. Cittadino attivo ha una connotazione più pragmatica e meno moralista di volontario e forse per questo pare funzionare meglio. Non che volontario sia una cattiva parola! È anche vero che le parole che vengono usate di frequente a un certo punto si stancano, diventano opache, sembrano non riuscire più a dire quel che hanno da dire.
Bisogna dunque stare attenti a non fare accumulare la polvere sulle parole che usiamo. La pragmaticità è il nodo che individua anche Vera Gheno parlando del linguaggio che dovrebbe usare il volontariato per cambiare la sua realtà: la parola volontario richiama alla mente di chi ascolta una nuvola semantica di martirio. Espressioni come “vado volontario” fanno rabbrividire anche chi non va più a scuola da un po’, invece modi di esprimersi come cittadino attivo aprono tutt’altri cassetti della memoria. Cittadino attivo dà l’idea di qualcuno che fa qualcosa, ma lascia la sensazione di fondo che la faccia anche per sé.
“Le persone non sono sempre così altruiste – ritiene la socio-linguista – a volte è necessario far capire loro quanto certe azioni siano un vantaggio anche per loro stesse”, come essere un cittadino attivo, cioè una persona che fa un’azione all’interno della sua società e che per questo si distingue dagli altri cittadini qualunque. Vera Gheno riscontra una tendenza ora sempre più diffusa, con il dilagare del pensiero populista, che induce a pensare di non contare nulla come cittadini, a non interessarsi di cose che non ci danneggiano direttamente, fino al punto di arrivare a dire che andare a votare non servirà a cambiare le cose. I giochi si fanno altrove, il potere è intoccabile e la soluzione è non fare nulla. Il problema più grande che ravvisa Vera Gheno, però, sta nell’uomo come animale sociale, che durante la pandemia ha visto modificare molto questo aspetto ancestrale della sua natura, perciò diventa difficile tessere le lodi del volontariato in un presente in cui l’importante “è che rimango vivo io”.
In sintesi, secondo la ricercatrice di sociolinguistica “il racconto del volontariato dovrebbe includere la narrazione del tornaconto personale”. Pare assurdo e quasi indecente da dire, ma in effetti è il motore di tutte le azioni quotidiane: operiamo delle scelte in funzione delle gratificazioni che ci possono dare. “Questo non significa – secondo la riflessione di Vera Gheno – che se qualcuno ha un tornaconto da qualcosa che fa volontariamente, perché gli piace farlo, sia un’opportunista. Semplicemente non è detto che il volontariato sia attività da intraprendere con solo spirito di contrizione, con quell’atteggiamento di donarsi al prossimo che sottende una privazione per se stessi”.
Il volontariato, in questo contesto generale e negli atteggiamenti nichilisti che si vanno consolidando, rischia di non essere più attraente, soprattutto per le giovani leve. Su questa prospettiva è però scettico Stefano Bartezzaghi, il quale ritiene che il volontariato sia invece molto attrattivo per giovani che sentono il bisogno di cambiare qualcosa nei fatti. Così, infatti, accade sui temi legati all’ambiente, alla sostenibilità, al clima, alle questioni di genere, magari perché sono temi che li toccano in maniera diretta, riguardano il loro futuro. Così non accade, però, in altri ambiti, come l’assistenza agli anziani, ai malati, ai bambini e a chi si trova in condizioni di disagio. Forse proprio perché questi non sono temi che li riguardano come gruppo sociale.
Il crescere delle relazioni online, la pandemia, la Dad, altri fenomeni sociali complessi hanno, di fatto, ridotto lo spazio di confronto fisico, la piazza, la strada. In questo contesto riesce difficile formarsi una coscienza sociale e civica, che non deve intendersi composta solo dalle nozioni, dagli articoli della Costituzione o dall’esempio di personaggi della storia, ma da qualcosa di più profondo: è imparare la convivenza col prossimo e, quindi, coglierne anche l’eventuale sofferenza. La domanda che ci si può fare è come rendere seducenti anche attività di volontariato che si interessano di bisogni che non sembrano avere una ricaduta diretta su qualcuno, né tantomeno generare un tornaconto personale. Ci vuole uno sforzo creativo.
Stefano Bartezzaghi, che di questo tema se ne intende e ha concentrato i suoi studi, in particolare, sull’idea che abbiamo di creatività, non sa se esista qualcosa come la creatività: sa che se ne parla e ritiene interessante il valore che si dà a questo concetto, una vera e propria mitologia del nostro tempo. “Ci sentiamo creativi quando ci viene riconosciuta una certa propensione a produrre qualcosa di nuovo – afferma Bartezzaghi –, una forma di spinta sociale all’innovazione e di gratificazione sociale per chi la realizza”. Il tornaconto, anche in questo caso. La creatività può assumere le sembianze del racconto, ci chiediamo quale deve essere il contenuto della storia per essere “creativo” e nello specifico quale dovrebbe essere il racconto del volontariato.
Risponde Bartezzaghi: “Nel 2020 è uscita un’importantissima edizione italiana dell’Ulysses di James Joyce: uno dei più innovativi romanzi della letteratura universale racconta una giornata, tutto sommato banale, nella vita di un impiegato di Dublino. Non è tanto il contenuto, insomma, a contare, intendendo per contenuto il tema, il contesto storico, le aratteristiche dei personaggi: sono le strutture narrative e le modali tà espressive a fare di una storia un racconto avvincente”.