La definizione di che cosa si intende per “luogo” è fondamentale per comprendere i processi di innovazione sociale. Un luogo va inteso, infatti, come un elemento che corrisponde a una identità socioculturale e non a una geografia. I luoghi non sono dei contenitori, ma uno spazio dotato di significato, capace di generare valore. Il luogo porta con sé esigenze, capitali, risorse e bisogni, che non necessariamente risultano disponibili nell’immediato. Risorse che per essere disponibili e per essere messe a frutto, devono essere mediate e riattivate da relazioni e conversazioni.
Nel passaggio “da spazi a luoghi” si viene così a creare la cosiddetta “economia delle relazioni” (come l‘ho definita con Stefano Zamagni nel 2017), dove la dimensione relazionale assume una rilevanza generativa in quanto capace di alimentare nuove forme di autorganizzazione e di attivazione capaci di potenziare i servizi e il benessere di un territorio. I luoghi, quindi, diventano tali quando la dimensione comunitaria diventa protagonista di processi di innovazione. Costruire una visione strategica di lungo periodo aiuta ad abitare i luoghi, abitarli con intenzionalità: intenzionale infatti è la capacità di costruire una visione strategica misurata da categorie trasformative e da indicatori di impatto sociale. Agire intenzionalmente e auto-organizzando la comunità è indispensabile per innescare processi di rigenerazione.
Come detto i luoghi sono spazi in cui si producono significati condivisi (Venturi, Zandonai, 2019), ma affinché questa alchimia si produca è necessario attivare le capacitazioni esistenti nelle per sone abilitando le loro conoscenze tacite.
Capacitare, infatti, vuol dire mettere a valore non solo le competenze già esplicite ed evidenti ma anche anticipare quelle che potrebbero divenire competenze. Nella logica di conoscenza e di relazione profonda che si sviluppa in un tempo ampio, significa capire come una persona può diventare risorsa. Per perseguire questi obiettivi, le “progettualità dal basso” devono muoversi dentro una logica ecosistemica e replicare, al loro interno, ulteriori ecosistemi dove la dimensione pubblica e privata (e tutto ciò che vi sta in mezzo) conversano in maniera paritetica, seguendo così una logica di sussidiarietà circolare. Nella rete si vengono così a creare una pluralità di funzioni: i connettori (di realtà pubbliche e private); gli attivatori (di competenze, di risorse, ecc…); i designer (di servizi personalizzati ed esperienziali).
Solo all’interno di una fitta rete di connessioni si verifica lo scambio di idee, conoscenza, contatti, opportunità, risorse. La
densità e l’intensità degli scambi all’interno di una rete determinano la capacità di agire dei suoi membri. Di conseguenza, più la rete è ampia ed eterogenea, maggiore è la capacità di tutti i nodi della rete di realizzare interventi efficaci. La dimensione di “luogo” nella sua valenza generativa, va legata a tre concetti: il primo è quello di innovazione sociale. L’innovazione sociale si nutre dei territori, dei quartieri e delle periferie come oggetti geografici in cui si attivano processi che tentano, a partire dalle risorse di cui un territorio dispone, di rispondere ai bisogni sociali emergenti in maniera più efficace e giusta.
Il secondo concetto è quello dell’intraprendenza intesa come la capacità dei cittadini di prendersi “il rischio” di alimentare processi condivisi legati alla valorizzazione di asset comunitari. Infine, l’ultimo concetto è quello di sviluppo, inteso nel senso di “togliere i viluppi, togliere le catene” che legano un territorio rispetto alla sua capacità di produrre valore. La capacità di produrre sviluppo, quindi, si legge anche attraverso la capacità di contrastare le disuguaglianze di tipo sociale ed economico che connotano un territorio. Il passaggio da spazi a luoghi, anche alla luce del Pnrr, assume una rilevanza pubblica in quanto capace di creare una nuova generazione di infrastrutture sociali.
A fronte di un ripensamento del sistema di welfare, diverso da quello tradizionale (welfare state), i luoghi di comunità stanno emergendo come ambiti dove abilitare nuovi processi di co-produzione dei servizi e nuove modalità di ricomposizione della domanda sociale; c’è infatti anche la necessità di socializzare la domanda attraverso la creazione di eventi o momenti che abbiano l’obiettivo di creare comunità e nuovi modelli di consumo. Le economie della rigenerazione, infatti, non passano più, come in precedenza, da percorsi di economia di scala, bensì da economie di luogo e di prossimità. Sono oltre 750mila le strutture immobiliari in condizione di abbandono: palazzi, ville, edifici ecclesiastici, strutture industriali, 6mila chilometri di ferrovie inutilizzate e circa 1.700 stazioni, oltre all’elevato numero di strutture pubbliche di grandi metrature, come ospedali, caserme e sanatori non più utilizzati. Un valore tacito e dormiente che necessita di comunità intenzionali e intraprendenti capaci di progettare forme inedite di gestione comunitaria.
“Il modello di gestione – diceva l’economista E. Ostrom – deve essere congruente con la natura del bene: se questo è comune, anche la gestione deve esserlo”. Ecco perché occorre riscoprire e rilanciare (anche partendo da legami deboli) un nuovo mutualismo comunitario. Il futuro di molti beni (pubblici e privati) passa da quella spinta “dal basso” capace di restituire attraverso una “ governance comune” nuova vita a risorse fino ad oggi dormienti. Una sfida, quella dei luoghi, che chiede alle organizzazioni della società civile – e in particolare del volontariato – di non cadere nella tentazione delle passioni tristi” e di abbracciare le aspirazioni delle comunità per “trasformare l’esistente”.