Nel cuore dell’appennino bolognese c’è un luogo dove immergersi nella tranquillità, perdersi nelle sfumature di verde e ascoltare i racconti narrati da un silenzio che parla, attiva i sensi, il pensiero. L’area collinare di Monte Sole fino al 1944 è stata abitata da circa 2.000 persone. C’erano piccoli borghi, campi coltivati. Oggi ci sono boschi, grandi prati, una natura avvolgente e coinvolgente, pochissimi edifici, alcuni resti di mura e di una chiesa, un cimitero. Conservano la memoria delle 770 vittime civili dell’eccidio agito nell’autunno del 1944 dai nazisti. A poca distanza dalle rovine si trova una delle poche costruzioni moderne: la Scuola di Pace di Monte Sole. “Ѐ un’istituzione educativa su un luogo di memoria. – spiega Elena Bergonzini, l’educatrice della Scuola che, con un’intervista, racconta questo unicum in Italia -. Ci troviamo fisicamente su un crinale e, per nostra missione, ci muoviamo sul crinale tra storia, memoria, educazione”.
Che cos’è la Scuola di Pace e come nasce? “L’idea è nata negli anni novanta, momento del pacifismo dopo la Guerra del Golfo e la Guerra dei Balcani. Alcune associazioni condividevano l’intenzione di lavorare sui conflitti, in un luogo che ne aveva subito uno terribile. Insieme (all’epoca ero volontaria di Amnesty International) abbiamo elaborato il progetto didattico, abbiamo coinvolto le Istituzioni pubbliche e, nel 2002, è nata la Fondazione Scuola di Pace di Monte Sole.
L’organizzazione oggi è cambiata e le associazioni non sono più così presenti e rappresentate, ma prosegue una relazione con le persone che hanno dato il via al progetto. Il nostro tratto distintivo è che educhiamo alla pace ‘in’ un luogo di memoria. Non necessariamente quello che facciamo riguarda la storia di Monte Sole in maniera diretta. Però siamo presenti su un luogo connotato, questo non sfugge. Fa da sfondo didattico, e quello che rappresenta integra i nostri interventi educativi. Monte Sole ora è un luogo di pace, si sente in maniera profonda. Il contrasto tra la bellezza del posto e la storia che ha alle spalle dà all’esperienza un valore unico. Le persone durante le attività entrano inevitabilmente in relazione tra loro e con il luogo. Si crea un’atmosfera difficilmente ottenibile altrove.”
Come si educa alla pace? “Proponiamo un lavoro verso l’acquisizione di una maggiore consapevolezza su chi siamo, come ci comportiamo, come sentiamo e a volte come potremmo cambiare il nostro agire. Cerchiamo di stimolare una riflessione su cosa rende possibile la violenza. Di fronte a fenomeni storici spesso sentiamo il bisogno di determinare chi è il buono e chi il cattivo, chi ha ragione e chi ha torto, chi è il perpetratore e chi la vittima. Lì ci fermiamo. Invece è utile analizzare ciò che succede e il ‘cattivo’ stesso. Ad esempio, rispetto ai nazisti possiamo chiederci cosa li ha spinti, come sono arrivati a quel punto, perché non si sono fermati.
Individuare cosa ha reso possibile una violenza così grande può aiutarci a comprendere perché si perpetra il fenomeno, e può aiutarci a vigilare su noi stessi. Ognuno, forse, è in grado di agire violenza, seppur piccola. A volte assumiamo, incorporiamo e agiamo dei comportamenti senza rendercene conto. Possono ‘scappare’ parole che contengono un senso di discriminazione verso alcune categorie di persone, o altre piccole forme di violenza. Riuscire a capire alcune dinamiche e ogni volta a praticare il dubbio, chiedendoci da dove viene quella determinata convinzione, può aiutarci a non arrivare ad agire violenza.
Nei nostri gruppi ragioniamo su come contesti, persone e altri elementi influenzano il nostro pensiero; sulle dinamiche di gruppo che a volte rendono possibili piccole forme di violenza. E indaghiamo anche la parte di coloro che non intervengono, che è per noi fondamentale, infatti spesso i conflitti sono possibili perché ci sono persone che non riescono a intervenire, non perché non abbiano delle convinzioni, ma perché magari si sentono sole, o si sentono di dover fare una cosa troppo grande di loro.
Lavoriamo con età diverse, dalla scuola dell’infanzia fino agli adulti. Ogni persona è inserita in un sistema e questa rete che gli sta intorno inevitabilmente la influenza. Se vogliamo produrre un cambiamento, allenare al pensiero critico, allo stile cooperativo, costruire coesione sociale dobbiamo agire sull’intera comunità.
Tra le vostre attività ci sono proposte rivolte a chi opera una relazione d’aiuto in contesti difficili, una condizione che coinvolge molti volontari. Quali sono i maggiori rischi che possono ‘inquinare’ una buona dinamica della relazione d’aiuto? “Un rischio di cui non c’è sempre consapevolezza, anche tra le persone per così dire di buona volontà, è ‘la vittimizzazione’. È una piccola disumanizzazione, anche se involontaria. Vedi quella persona sempre e solo in quel suo pezzo di storia in cui è identificabile come vittima, fragile. E perdi di vista tutto il resto, tra cui la capacità, il bisogno e la voglia di guardare oltre. Altro rischio comune è il ‘contagio emotivo’, che si verifica quando l’empatia supera i limiti e ti identifichi con la persona che aiuti. Ti sostituisci all’altro dandogli una voce che non è sua, ma tua. Anche qui c’è un processo di disumanizzazione involontario che non consente il processo di empowerment, perché non lascia lo spazio adeguato all’altro.
Bisognerebbe invece creare le condizioni perché le persone si esprimano, in qualsiasi modo è possibile esprimersi. Per noi pace significa rispetto dei diritti, dell’individualità, rispetto tra esseri umani. Il nostro percorso di riflessione condivisa porta a lavorare anche sulla consapevolezza di questi rischi discriminatori causati da stereotipi e imprinting culturali nei quali siamo immersi. È un lavoro che può essere molto utile per chi fa volontariato, ma più in generale lo è per chiunque”.