Desiderare è un verbo bellissimo, ma per lo più tenuto a distanza dal tema del lavoro, che è invece questione di bisogni: ho bisogno di lavorare perché il lavoro mi permette di soddisfare i bisogni. Come si può, quindi, applicare questa nozione di desiderio all’ambito lavorativo? Potremmo chiederci innanzitutto cosa ci sia di desiderabile nel lavorare. Certo ne ricaviamo mezzi e riconoscimento sociale, ma in più lavorando possiamo realizzare qualcosa di buono, di utile anche per gli altri. Personalmente chiamo questa motivazione “generativa” e frequentemente la descrivo ricorrendo ad un piccolo racconto.
Un pellegrino, nel suo cammino, si imbatté in uno spaccapietre. L’uomo era evidentemente stanco per il duro lavoro, sudato e impolverato, stava spaccando con martello e scalpello un grande masso. Il pellegrino, osservandolo, gli chiese cosa stesse facendo e questo, bruscamente, rispose: “non vedi, sto spaccando pietre”. Il pellegrino benedisse l’uomo e proseguì, per imbattersi dopo poco in un altro operaio, anch’esso intento a spaccare pietre. “Che stai facendo, buon uomo?”, “Non vedi, sto procurando il pane per me e la mia famiglia”. Ancora una volta il pellegrino, riprese il suo cammino. Pochi chilometri e fece un nuovo incontro, con un diverso spaccapietre intento nel suo lavoro. La scena si ripeté: “che stai facendo, buon uomo?”, “Non vedi, sto costruendo una cattedrale”, rispose questi.
I nostri volontari costruiscono cattedrali, che poi è l’unico lavoro che – liberamente – può farsi gratis. Lo fanno per seguire un proprio desiderio di generazione e così portano il proprio, personale, unico contributo al bene comune. Così costruiscono comunità, nonostante la crisi generale in cui versiamo.
In questo tempo, parlare di crisi, molto facilmente ci porta a pensare alla pandemia di Covid-19 che ancora funesta gran parte del mondo. Si tratta di un tragico accidente che ha impattato duramente anche sull’impegno del volontariato: l’impossibilità di disporre di protezioni adeguate ha fatto sì che molto dell’operoso servizio offerto dai volontari si interrompesse. Eppure sono convinto che la pandemia che ci colpisce, che colpisce il nostro desiderio di dare, di costruire, non sia solo originata da un virus alieno. C’è anche una pandemia sociale, psicologica, oserei dire anche spirituale. La sua origine risiede nell’affermazione sempre più spinta di una cultura individualista, in cui l’idea di bene comune rischia di perdere una caratterizzazione concreta, per rimanere sempre più astratta.
Per certi versi l’attuale pandemia è come se avesse amplificato questa sottostante dimensione di isolamento e distanza: che errore insistere tanto sul tema del “distanziamento sociale”, ma forse non è un caso l’uso di questa locuzione, così figlia dei tempi.
La generazione è relazionale o non è. Per questo mai come ora è necessario insistere nel proporre una cultura del volontariato, che è – a mio parere – innanzitutto una cultura della comunità. Il senso di comunità, non importa se laicamente o religiosamente fondato, la coscienza di essere parte di qualcosa di più che il mio io auto-riferito è ciò che permette di prendere parte e di fare la nostra parte, sia quella di dare il proprio tempo per aiutare dei bambini a studiare, sia di visitare i sofferenti, sia di aiutare a conservare e proteggere i luoghi del nostro vivere.
Stefano Gheno è psicologo del lavoro e di comunità. Insegna in Università Cattolica di Milano ed è da sempre attivo nel volontariato. Svolge da oltre trent’anni attività di consulenza e formazioni per Enti del Terzo Settore in Italia e all’estero. Attualmente è presidente di Cdo Opere Sociali.