Fintanto che la pazzia non rientrerà nella “normalità”, questa sarà una società incompiuta. È il primo insegnamento che arriva quanto si entra a contatto con L’Accademia della Follia. Il secondo è che il teatro è una professione, ma sul palco succedono dei miracoli.
La compagnia muove i primi passi negli anni ’70, inizialmente con il nome Velemir Teatro (in sloveno “portare la pace”). Impossibile condensare in poche battute 50anni, ma ripercorrendo alcune tappe di questa esperienza si rivive un pezzo di storia non solo italiana. Siamo a Trieste. Franco Basaglia, psichiatra ispiratore della Legge 180/1978, decide di chiudere le porte del manicomio. I padiglioni nel rione di San Giovanni si svuotano, che farne? L’idea dell’equipe è offrire gli spazi a giovani artisti a patto di coinvolgere i cosiddetti matti.
“Nasciamo così – spiega Angela Pianca, drammaturga dell’Accademia – io giovane psicologa, amante del teatro, arrivata da Treviso come volontaria per lavorare con Basaglia, conosco qui Claudio Misculin, proveniente da un anno di carcere da innocente, che nel teatro ha trovato qualcosa che lo ha salvato. Decidiamo insieme di formare una compagnia aperta a tutti. Scommettevamo sul fatto che, a partire dalle minime residualità, chiunque potesse acquisire le competenze per fare teatro”.
Oggi il Dipartimento di Salute Mentale di Trieste riconosce proprio il valore professionalizzante del progetto, proposto tra le offerte di formazione al lavoro. Uno dei riconoscimenti, nazionali e internazionali, che l’Accademia ha ricevuto negli anni, ma il debutto non è stato semplice.
“Nel 1984, in una delle prime uscite, si va a Padova con uno spettacolo di Oddo Bracci – continua Angela – la scommessa era che nessuno avrebbe riconosciuto il matto dall’attore. Alla prima, però, Il Mattino titola ‘I matti di Basaglia escono con l’Antonio Freno’. Da 25 siamo rimasti in 6. Ma ripartiamo con una nuova consapevolezza: la nostra debolezza poteva diventare la forza della compagnia. Negli anni abbiamo avuto momenti di ampliamento e restringimento, ma siamo stati attraversati da tutti, tra i grandi Dacia Maraini, Giuliano Scabia, Claudio Bernardi… abbiamo lavorato con più di 900 persone, siamo fortemente contaminati. A volte ci chiediamo come abbiamo fatto”.
“Li ho conosciuti – interviene Cinzia Quintiliani, responsabile dell’organizzazione e della produzione – nel 1990 a Santarcangelo dei Teatri. Lo spettacolo era in programma alle 2 di notte, ma c’era un sacco di gente. La regia, la scenografia, provocò una commozione tale che anche alle prove c’era il tutto esaurito. Mi innamorai di Claudio ed entrai nella compagnia, per scoprire che nel mondo c’è un’infinita gamma di possibilità che noi non immaginiamo. Iniziamo a lavorare a Rimini, Cremona, Milano, Pegognaga e all’interno dei Dipartimenti di Salute Mentale, proponendo laboratori. Si forma un arcipelago teatrale: Claudio spingeva per uno scambio continuo tra attori e percorsi. Un’esperienza che dura 17 anni. Oggi è ancora vivo il gruppo di Trieste”.
In questi continui passaggi nascono anche nuovi amori. A Comacchio, al museo Brindisi messo a disposizione dall’allora sindaco Giglio Zarattini, Gabriele Palmano, attore più anziano, conosce la sua anima gemella, Donatella Di Gilio, seguita dal Dipartimento di Salute Mentale, diventata poi prima attrice della compagnia, un “vero talento naturale”. I due stavano lavorando allo spettacolo “Il dottor Semmelweis”, un’esperienza raccontata nel film documentario Matintour, coproduzione Rai.
Ma le contaminazioni non si sono fermate tra i confini italiani. Tra le esperienze internazionali, anche quella in Brasile dove si approda con lo spettacolo di Dacia Maraini diretto da Claudio, “Stravaganza”, realizzato in lingua portoghese, un’abitudine proprio della compagnia esibirsi all’estero con la lingua del luogo. Certo non mancarono le sorprese. All’arrivo, dopo 13 ore di volo notturne, la compagnia si trovò ospitata in una casupola fatiscente, al confine con una favela. Ricorda Cinzia: “Sentivamo gli spari. Eravamo matti trattati da matti brasiliani. Dovevamo combattere per il riconoscimento della nostra dignità”. Tutto andava conquistato per stimolare il cambio culturale e le soddisfazioni non tardarono ad arrivare.
“Alla fine fu un successo – continua –, nel 2011 replicammo, con 22 date. Ci chiedevano conferenze, incontri, laboratori… Basaglia qui era una luce e noi lo stavamo portando. Arrivammo fino all’ospedale psichiatrico di Porto Alegre. Mi innamorai di questo luogo, tanto che facemmo lì una residenza artistica e, nella pratica, nell’affettività e nell’amore, sono sortiti miracoli: chi non parlava o non si muoveva ha cominciato a farlo… La mia soddisfazione più profonda? La nascita dell’associazione brasiliana ‘A Nau da Liberdade’, che continua a fare arte e azioni di denuncia. Abbiamo messo un seme che, innaffiato, cresce ancora”.
Quando nel 2019 Claudio morì, fu un duro colpo per tutti. Era l’anima geniale dell’Accademia, si doveva trovare un nuovo equilibrio.
“Fu Franco Rotelli, collaboratore di Basaglia, che ci spronò ad andare avanti – riprende Angela – una volta una giornalista gli chiese: ‘Qual è il tratto decisivo della rivoluzione basagliana?’, lui rispose: ‘Gli artisti. Sono stati loro a portare fuori dal manicomio la follia riconsegnandola a tutti con spensieratezza e allegria’. Lui lavorava sulla relazione, non tra dottore e paziente, ma intesa come processo di riconquista identitaria e professionale. Significava smontare e ricucire il progetto sulle persone. Su questo presupposto, noi abbiamo cercato mille modi di costruire testi e spettacoli. Abbiamo prodotto una struttura ad albero affinché, laddove un ramo si spezzasse, il tronco reggesse ancora. Un lavoro quotidiano e faticoso”.
Si continuò quindi a crescere, arrivarono Antonella Carlucci, attrice e regista, Alice Gherzil, cantante, Sara Taylor, direttrice artistica, ballerina e coreografa. E iniziò una nuova fase. In cui si è resa urgente l’esigenza di raccontare questo patrimonio di esperienze. A ottobre 2022 esce il libro “Accademia della Follia. Un viaggio lungo 30 anni”. Lo stesso anno, la documentazione raccolta è stata riconosciuta un bene nazionale dalla Sovrintendenza del Friuli Venezia Giulia diventando archivio pubblico.
Fino ad arrivare a oggi, dove l’obiettivo, anche grazie al coinvolgimento di VolaBo, è creare un coordinamento tra i teatri che lavorano sul tema della salute mentale.
“Il teatro ‘ufficiale’ – conclude Angela – riconosce pochissimo questo percorso… anche se qualcuno scrive che è l’unico teatro che oggi abbia un senso, perché convoca la comunità a ragionare sul confine tra normalità e follia come qualcosa che appartiene a tutti noi… una consapevolezza importantissima per riconoscere il valore delle differenze”.
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