di Paolo Di Vincenzo – 19 novembre 2024

Giò Di Tonno. Un uncino sul palco, solidale nella vita

 VDossier incontra e intervista il protagonista del musical Peter Pan da sempre impegnato nel mondo del volontariato

Il teatro musicale moderno è la sua casa, ormai, e miete successi da oltre un ventennio, da quando venne scelto da Riccardo Cocciante per il ruolo di Quasimodo, il gobbo campanaro di Notre Dame innamorato della bella Esmeralda.

Lui è Giò Di Tonno e recentemente ha entusiasmato le platee di tutta Italia con Capitan Uncino, nel Peter Pan con le musiche di Edoardo Bennato. In questo periodo è al lavoro per la nuova opera pop, “I tre moschettieri”, che andrà in scena a dicembre a Bari (6 e 7, al teatro Team) e Napoli (20, Palapartenope), a gennaio nella sua Pescara (14 e 15, teatro Massimo), a Terni (18 e 19, Palaterni) e a Palermo (30 e 31, al teatro Golden). A Milano, al teatro Nazionale, sarà in scena dal 15 al 23 febbraio. A seguire toccherà anche le città di Padova, Torino, Roma, Brescia, Bologna.

Dal capolavoro di Dumas ha tratto il testo il suo autore storico, Alessandro Di Zio, e lui ha realizzato le musiche. Ma Giò (all’anagrafe Giovanni) è un signore della canzone italiana, con al suo attivo anche la vittoria del Sanremo 2008 in coppia con Lola Ponce, che ama la tranquillità della provincia, dove continua a vivere. Soprattutto è un volontario vero, da sempre al fianco dell’Ail, l’Associazione italiana contro le leucemie e l’impegno, quasi mai sbandierato, a favore degli altri, degli ultimi, dei dimenticati.

Di Tonno, nell’intervista che ha rilasciato a VDossier, racconta la bellezza e la necessità di donarsi agli altri.

Da sempre lei è impegnato nel volontariato. In particolare per l’Ail, Associazione italiana contro le leucemie, a cui ha donato un album che ha venduto diecimila copie, e i proventi sono andati tutti a loro. È un esempio alquanto singolare di dedizione, di dono.

Sì ed è parte della mia educazione, aver avuto da sempre dei principi che mi hanno fatto capire l’importanza da dare alle cose e del darsi agli altri. Siamo al mondo soprattutto per questo, non siamo entità astratte, la solitudine la viviamo nella nostra intimità. C’è un mondo che ci circonda e quando capiamo che ci sono persone veramente meno fortunate, che hanno un enorme bisogno di aiuto, io cerco di prodigarmi, anche con poco. Dono mensilmente ad alcune associazioni, non è il caso nominarle. Lo faccio volentieri, è una goccia nell’oceano, però, sapere che con quel contributo tu riesci a sfamare qualcuno dall’altra parte del mondo, o a fargli avere le medicine che altrimenti non avrebbe mai, è tanto. E poi mi impegno molto anche a livello locale (Giò continua ad abitare nella città in cui è cresciuto, Montesilvano confinante con Pescara, ndr), magari piccole somme, che non sbandiero proprio perché questo aspetto della solidarietà non mi piace. Se devi porre sotto i riflettori un problema per dare luce a una iniziativa va benissimo, certo, però mostrare un gesto di aiuto così, solo per vantarsi no, lo detesto e non mi interessa. Donarsi è importante.

Quanto può essere significativo dare un segnale di amore verso il prossimo nei confronti dei giovani, magari di quelli che vengono ogni sera a vederla con l’uncino finto del Capitan Uncino nella favola di Barrie?

L’esempio è fondamentale, significa agire e dimostrare che si può e si deve aiutare gli altri. La beneficenza non va esibita ma va comunque tramandata. Soprattutto è un’azione che deve arrivare ai giovani che possono, così, essere educati al bene, alla solidarietà, all’aiuto degli altri. Siamo tutti parte di una comunità e da soli si può fare veramente poco. È necessario gridarlo in un momento storico in cui la società va sempre più verso l’individualismo. In questo i social hanno fatto danni incalcolabili. I ragazzi dovrebbero tornare a essere più vicini tra loro, a condividere la vita, non le stories, i like, con persone che non conoscono. Questo è quello che predico a proposito di Capitan Uncino, che predichiamo con lo spettacolo, ed è ciò che racconta la storia: i sei ragazzi che fuggono dall’Isola che non c’è. Bisognerebbe fuggire da una vita che non c’è, che è quella mostrata dai social, una vita fittizia, finta. È molto più bello tornare a condividere la quotidianità, anche le cose semplici e banali dei rapporti umani.

Lei è un artista di grandissimo successo, in particolare di musical,  di opere moderne. Ma nasce come cantautore. Insomma, un artista popolare nel senso più pieno e profondo del termine. Una musica che arriva a tutti.

Mi sento sempre cantautore da quel lontano 1994, quando partecipai, nella sezione giovani, allora si chiamava Nuove proposte, con il brano “Senti uomo”. Ma anche prima, quando cominciavo a buttare giù le mie prime canzoni, i miei primi pensieri in musica. Lo sono ancora e la cosa che mi ha sempre appassionato è questo poter raccontare i lati del mio carattere, che nella vita facevo fatica a esprimere, la difficoltà di comunicare i sentimenti. Allora ho capito che potevo usare la musica con parole che non fossero per forza quelle usate nella vita di tutti i giorni, che non avrei avuto il coraggio di dire direttamente. Avevo trovato la mia dimensione, la mia collocazione nel mondo e questo mi ha aiutato a liberarmi delle sovrastrutture che spesso ci creiamo. Scrivere musica mi ha liberato l’animo in un certo periodo. Continuo a farlo, adesso è un aspetto un po’ più marginale del mio mestiere pubblico ma nel privato continuo perché è il modo per continuare ad avere un rapporto con me stesso: io con il pianoforte, con la chitarra, a scrivere ciò che vorrei dire e che a volte non riesco a esprimere con le parole.

Ripercorrendo la sua attività, si trova una vittoria a Sanremo Giovani nel 1995, una nel 2008 con Lola Ponce e poi migliaia di recite in palcoscenico. Ormai è il re del teatro musicale moderno e, non da ultimo, un paio di affermazioni anche a Tale e quale show, la trasmissione televisiva dagli ascolti eccellenti su Raiuno. Che rapporto ha con il successo?

Non vorrei essere banale, ma sono una persona semplice, nel senso che usava Calvino. Un rapporto sereno perché ho avuto dei momenti di successo artistico importanti che ho saputo gestire grazie a un fattore principale: avere i piedi per terra, l’educazione, l’essere cresciuto in una famiglia che mi ha fatto capire qual è il giusto peso da dare alle cose che accadono. Il resto è tutto transitorio, sono gioie, traguardi personali. Come un dipendente statale può avere un aumento, un premio, per me il successo è il riconoscimento di un lavoro che sto facendo bene, soprattutto quando si tratta di repliche in teatro perché quando le persone vengono a vederti, pagando un biglietto, è un segnale forte. La televisione a volte è effimera, c’è un po’ più di finzione, quel successo lì a volte è dettato dal momento, dalla fortuna di trovarsi nel periodo giusto, come mi è accaduto per “Tale e quale show”, nel programma adatto. Non mi sono mai montato la testa, sono rimasto la persona che ero e ciò mi ha aiutato a vivere il presente con “presenza”. Dietro un successo c’è sempre la tua storia personale, un percorso. Quando vinsi Sanremo con Lola Ponce, nel 2008, ricordo che passai la nottata dopo la proclamazione su una terrazza in un albergo di Sanremo con il premio davanti, con il mare all’orizzonte. Una scena quasi romantica, quasi alla Sorrentino, e pensai a tutta la mia vita fin lì, tutti i passi fatti per raggiungere quel risultato, per affermarmi, per affermare la mia arte.

Tornando al volontariato. Spesso si dice che nel farlo, soprattutto persone sensibili come gli artisti, ricevono più dalle persone che incontrano che quello che danno. È d’accordo?

Non so se sia un caso ma da quando mi sono avvicinato al mondo della solidarietà, da quando ho capito che con poco potevo fare tanto, la mia vita è migliorata sostanzialmente. Ho notato un affetto, un calore intorno a me incredibili, solo con la consapevolezza di aver fatto qualcosa per un bambino che vive dall’altra parte del mondo, per un malato in un ospedale al quale, con un piccolo contributo, hai reso la vita e un’assistenza migliore. Io ho ricevuto tantissimo ma ciò che ti arricchisce dentro è fare del bene. Ci vuole tempo, ci vuole consapevolezza, maturità. Perché a volte si compiono buone azioni un po’ per inerzia: ok, ti do un aiuto perché bisogna farlo, senza neanche rendersi conto, invece, qual è il motivo profondo di questo donare. Poi, quando hai l’esperienza diretta, le cose cambiano in maniera esponenziale. A me per esempio è capitato di andare in un reparto di Oncologia pediatrica per l’Ail (Associazione italiana contro le leucemie), o in una casa famiglia in cui c’erano bambini che aspettavano di essere adottati, lì ti rendi conto che l’aiuto si trasforma in qualcosa di materiale, non le chiacchiere. Sì, la presenza fa morale ma l’aiuto è fondamentalmente quello economico, quello più importante. Poi c’è l’aspetto umano, emozionale che aiuta, però arricchendo le casse di una associazione dal punto di vista materiale io mi sono arricchito dal punto di vista umano e questo è stato lo scambio più bello che mi è capitato di avere.

Molti suoi colleghi fanno attività a fini di beneficenza, pensa ci sarebbe bisogno di più impegno nel mondo del pop?

Io credo che non si dovrebbe mai smettere di fare beneficenza. So che tanti lo fanno, molti anche senza dirlo. Il mondo dello spettacolo si muove sempre e significativamente in questa direzione. La mia paura e la mia preoccupazione è sul come questi fondi vengono gestiti, talvolta. Penso alle tante polemiche create per gli aiuti dati ai terremotati, alle popolazioni colpite dalle alluvioni. Il controllo sulla destinazione di questi fondi dovrebbe essere più serrato, e potrebbe essere un deterrente per i malintenzionati. Chi dona dovrebbe avere la certezza che quei denari finiscano nelle mani giuste, nei progetti concreti. In ogni caso, vedo che il mondo dello spettacolo, di fronte alle cause importanti non si tira mai indietro. Poi sta sempre all’individuo, non si è mai un’entità unica. Il mondo dello spettacolo è come tanti altri ambienti, c’è il privilegio di avere i riflettori puntati, nel bene e nel male, e questo è un incentivo in più perché a cascata, poi, può nascere un tam tam. Quando un ragazzo idolatra un cantante prende da lui tanti esempi, ne canta le canzoni e ne copia le gesta. Magari l’artista ha aiutato tanto gli altri e allora lo fa anche lui, è una responsabilità sociale e civile per noi artisti.

Cosa farebbe se potesse decidere una iniziativa corale in Italia, una sorta di We are the world quarant’anni dopo?

Ci sono state poche iniziative corali, penso alla canzone “Domani” realizzata per il post terremoto dell’Aquila. Se dovessi decidere in questo momento riunirei tutti gli artisti del teatro musicale italiano, che sono tantissimi, che hanno poca visibilità e sarebbe il modo per dare una giusta luce a loro e far capire che anche chi vive nell’ombra, rispetto alla popolarità, ai lustrini, al gossip del mondo del pop, anche quelle persone hanno tanto da dire. Sarebbe un esempio di un settore “più povero” che dà un segnale fortissimo. Il mondo del teatro potrebbe e vorrebbe fare tanto perché in sala c’è maggiore verità, sincerità di rapporti, forse perché gli interessi sono minori. Lo so bene perché ho vissuto sia il mondo del pop e, forse maggiormente, quello del teatro musicale e quindi farei una iniziativa con i teatranti.

Giò Di Tonno

TI POTREBBERO INTERESSARE